Il 22 giugno, papa Francesco ha nominato Luc Terlinden arcivescovo di Malines-Bruxelles. Dopo mons. De Kesel, che ha raggiunto l’età della pensione, questo 54enne originario di Bruxelles sarà ora la figura di riferimento della Chiesa in Belgio. La sua ordinazione episcopale avverrà il 3 settembre. In questa intervista, pubblicata su La Libre Belgique del 24-25 giugno 2023, traccia i principi fondamentali che guideranno il suo episcopato (nostra traduzione).
- Mons. Terlinden, lei, prossimamente, incontrerà il papa a Roma. Come gli descriverà la Chiesa del Belgio?
Dirò che è una Chiesa che sta vivendo una grande transizione, ma con segni di speranza e una vitalità molto evidente. Non possiamo ridurre il discorso a certi luoghi comuni dicendo che le chiese si stanno svuotando. Non è la mia esperienza.
- Dove vede questi segni?
Qui, nella cattedrale di Malines, attorno a un nuovo parroco, vedo crescere molte comunità vive. Quando una comunità di credenti legge e ascolta il Vangelo, quando celebra la messa e vive concretamente la solidarietà e la fraternità, essa gode delle basi che le permetteranno di crescere. Nel 2006, la parrocchia di Sainte-Croix a Ixelles ha proposto una messa delle famiglie con una piccola corale. Qualche anno dopo ha organizzato un gruppo di giovani. All’inizio, queste iniziative erano molto piccole e non riunivano molte persone. Poi sono cresciute.
Oggi la Chiesa può costruire con umiltà luoghi di incontro, di preghiera e di fraternità senza cercare il numero, ma avendo cura di vivere profondamente ciò che il Vangelo ci invita a fare. Non dimentichiamo che la Chiesa e i credenti non sono solo quelli che vanno a messa ogni domenica. Coloro che vengono di tanto in tanto ad accendere una candela sono anch’essi dei praticanti. Quando vedo il numero di candele che vengono accese nella cattedrale, alla grotta di Lourdes, qui a Malines, mi dico che c’è ancora una certa pratica. Non sarà spettacolare, ma ci impedisce di cadere nel disfattismo e ci invita a costruire con umiltà.
- Charles de Foucauld, questo sacerdote eremita che visse poveramente nel deserto algerino all’inizio del XX secolo, è una figura di cui parlava spesso il suo predecessore, il card. De Kesel. Anche lei lo ammira. Il suo esempio e il suo atteggiamento incarnano la linea che lei vorrebbe imprimere alla Chiesa?
Non voglio imporre la mia spiritualità alla Chiesa, ma è certo che Charles de Foucauld mi ispira. Ha vissuto le relazioni di fraternità, in semplicità e fedeltà. Voleva parlare di Dio, ma soprattutto voleva essere, con la sua esistenza quotidiana, un testimone e un esempio di vita evangelica. Come dice papa Francesco, il problema dei cattolici non è di essere pochi, ma di essere insignificanti. La Chiesa deve essere un segno dell’amore di Dio per gli uomini.
- Lo storico francese Guillaume Cuchet, che ha studiato il futuro del cattolicesimo in Occidente, sostiene che, quando un gruppo diventa una minoranza, deve necessariamente rafforzare la propria identità se vuole sopravvivere. Lei è d’accordo?
Tutto dipende da cosa si intende per identità. Alcune correnti vogliono tornare a un’identità che si confonde con un’ideologia nazionalista o con un ripiegamento su sé stessi. La nostra profonda identità cristiana ci proibisce di ripiegarci su noi stessi, su un gruppo o su una nazione. Sarebbe contro natura.
- In Belgio, un arcivescovo ha sempre assunto una statura pubblica, un ruolo quasi politico intervenendo nel dibattito sociale. È un ruolo che lei intende assumere o la Chiesa dovrebbe ormai ritirarsi dal dibattito pubblico?
No, non deve fuggirlo, ma deve sempre affrontarlo con umiltà e ricordarsi che essa è lì per proporre il Vangelo, non per difendere un’ideologia. È una cosa molto diversa. Si rimprovera talvolta ai vescovi belgi di non reagire abbastanza ma, se dovessero farlo ogni volta che qualcosa va contro l’insegnamento della Chiesa, dovrebbero rilasciare un comunicato tutte le settimane, se non ogni giorno. E sarebbero screditati. Perciò dobbiamo essere in grado di reagire, ma con saggezza.
È anche positivo che i vescovi sostengano e incoraggino i cristiani impegnati in politica o nella società. Prendiamo, ad esempio, i dibattiti molto accesi sulle questioni di genere e l’educazione alla vita affettiva e sessuale nelle scuole. Noi dobbiamo raggiungere i genitori e gli insegnanti che lavorano su questi temi, in modo da promuovere una visione dell’uomo che riteniamo rispettosa della sua dignità e della sua verità.
- Perciò non esclude di parlare di argomenti come l’aborto, per esempio?
No, perché l’aborto non può essere banalizzato. Lo dico a titolo personale, non per condannare o condizionare, ma perché ho incontrato troppe persone, madri e medici, che hanno sofferto molto a causa di un aborto. Tuttavia, le nostre parole saranno credibili solo se saremo vicini alle realtà più dolorose. Non ha senso opporsi all’aborto se non ci impegniamo concretamente a sostenere le madri in difficoltà.
- Si dice che vi preoccupate del consenso e dell’unità. Ma quando sentiamo il papa opporsi ad alcuni aspetti del mondo contemporaneo, quando si leggono le vite di santi cattolici, vediamo che essi si distinguono soprattutto per una forma di radicalismo. Come possiamo conciliare le due cose?
Seguendo l’esempio di Gesù, che parlava con autorità ma si faceva vicino a tutti. Tendere all’unità non significa cercare un denominatore comune che porti al consenso. Significa riflettere insieme per vedere come possiamo essere fedeli al Vangelo. Vuol dire rendersi conto che nessuno possiede tutta la verità e che la Chiesa deve ascoltare anche il mondo contemporaneo. È stato lasciandosi interpellare dalla questione operaia nel XIX secolo che i cattolici hanno potuto comprendere meglio il Vangelo. Non dobbiamo credere che abbiamo solo da dare al mondo contemporaneo: abbiamo anche da ricevere da esso.
- In tutto il Belgio, quest’anno saranno ordinati dodici sacerdoti. Solo quattro di essi nelle Fiandre. È una cifra che le toglie il sonno di notte?
Questo non mi impedisce di dormire, né di sperare e di pregare perché ce ne siano di più. Dovremo essere più creativi e non avere paura di fare certe domande per incoraggiare le vocazioni. Ma vorrei allargare il dibattito. Se ci concentriamo solo su questo, dimentichiamo che Dio chiama in vari modi a ministeri molto diversi. Se vogliamo che più persone entrino in seminario, la Chiesa deve promuovere una cultura della vocazione, di tutte le vocazioni; ricordare che la vita cristiana è una risposta a una chiamata e che ognuno può svolgere un servizio nella Chiesa, in base alle doti che possiede.
- Porre certe domande significa considerare, ad esempio, l’ordinazione di uomini sposati?
Sì, tanto più che non è una questione nuova, visto che è stata vissuta nel primo millennio qui da noi, e che esiste nella Chiesa d’Oriente, ad esempio in Libano, che considera una ricchezza la coesistenza di un clero sposato con un clero celibe. Di fronte a questa domanda, non possiamo partire con dei preconcetti e dire: “questo mai”! Dobbiamo avere la libertà interiore di lasciarci interpellare da queste domande.
- La gerarchia della Chiesa si apre alle donne, ma molte di loro sono ancora escluse dal triangolo mascolinità-sacralità-potere. Pensa di procedere su questi temi?
La messa è centrale nella vita di fede, ma da mille anni la vita della Chiesa si è incentrata quasi esclusivamente sulla figura del sacerdote. Sappiamo che, per la Chiesa, l’ordinazione sacerdotale è riservata agli uomini, ma bisogna riprendere i contatti con una Chiesa che metta in luce tutte le vocazioni e le possibilità che esistono al suo interno. Questo è ciò a cui il papa sta lavorando e che permetterà di offrire un posto reale alle donne.
- La Chiesa è organizzata attorno alla struttura parrocchiale e alla sua rete territoriale. È un assetto che lei potrà mantenere? Qual è la sua idea?
Le cose stanno cambiando, ma non possiamo gettare nella spazzatura il principio delle parrocchie e la loro presenza territoriale. La parrocchia permette di avere una chiesa disponibile e aperta a tutti, che offre il necessario per la vita cristiana. È il segno della presenza di una Chiesa in mezzo al mondo e per tutti. Tuttavia, dobbiamo essere onesti: non saremo più in grado di mantenere la rete come la conosciamo oggi. Ci sposteremo verso dei poli da cui potremo irradiarci. Qui a Malines non esiste un piano prestabilito. La riflessione si farà con le comunità locali per elaborare un piano che non potrà cadere dall’alto.
- Il Vaticano ha avviato un’ampia riflessione (un sinodo) con tutti i cattolici sul futuro della Chiesa. Un documento provvisorio suggerisce che ci dovrebbe essere una maggiore trasparenza nel potere decisionale dei vescovi e che si dovrebbero elaborare anche dei criteri per valutare il lavoro dei vescovi. Lei è favorevole?
Sì, sono d’accordo. Sicuramente, alcune decisioni che riguardano i singoli, ad esempio, devono essere soggette a discrezione, ma effettivamente abbiamo bisogno di una maggiore trasparenza. Allo stesso modo, quand’ero parroco, io e i miei colleghi e il rettore organizzavamo dei momenti per una verifica su quello che stavamo facendo. È molto prezioso avere il beneficio di uno sguardo esterno, e io devo pensare a come continuare a farlo in quanto arcivescovo. Implica però una nuova cultura nella Chiesa, dove spesso si teme che ciò intacchi l’autorità.
- Lei ha una cosa da dire ai giovani sacerdoti ordinati questo mese di giugno, quale?
Che c’è una gioia propria del ministero del sacerdote e che Dio è fedele alla sua chiamata. Quando ho delle difficoltà, questo è un grande sostegno. Mi dico: Se sono qui, è perché mi hai chiamato. Ebbene, eccomi.
La solita solfa modernista. Ascoltare il mondo, preti sposati,donne in ogni dove. Invece dove si resta ancorati alla roccia , castità, sacrificio, sequela , dottrina , dogma le vocazioni aumentano , la gente riempie le chiese e i sacerdoti diventano santi santificando il popolo.
Mi pare che a parole sia dotato di un po’ di sana realismo.