Come deve comportarsi un operatore pastorale (prete, religioso e laico) davanti alla pratica del suicidio assistito? I vescovi svizzeri hanno scritto un testo che considera nella sua complessità tale situazione, pubblicando degli orientamenti pastorali dal titolo Attitudine pastorale davanti alla pratica del suicidio assistito (dicembre 2019). Il dato essenziale è il dovere di accompagnamento anche di colui che richiede la morte, senza tuttavia condividerne l’istanza. Il segno riconoscibile è l’assenza nel momento in cui si procede per via orale o per via endovenosa al farmaco letale.
L’indicazione è costruita in un lungo percorso a cui vale la pena accennare. A partire dai precedenti documenti che formano una organica e preziosa riflessione del pensiero e della pratica cristiane di fronte al morire: Morire con dignità (lettera pastorale dei vescovi sull’eutanasia e l’accompagnamento ai morenti, giugno 2002); Accettare di morire: una sfida da affrontare (lettera pastorale dei vescovi di Freiburg i. Br., Strasburgo e Basilea, giugno 2006); Il suicidio degli anziani: una sfida (Commissione nazionale Giustizia e pace, luglio 2016; cf. SettimanaNews).
Una prassi o un diritto?
Il documento più recente è diviso in tre parti: la sfida all’etica sociale del suicidio assistito; l’accompagnamento ecclesiale e il discernimento per alcune situazioni particolari.
Il rapido sviluppo del suicidio assistito in Svizzera non ha regolamentazione giuridica (e non la si auspica) e può indurre la convinzione comune di una scelta accettabile, espressione dell’autonomia del singolo, perdendo la percezione della sua radicale estraneità al dettato evangelico della difesa della vita. Le ragioni normalmente invocate per il suicidio sono le sofferenze insopportabili, la situazione intollerabile, la solitudine insuperabile, la paura di diventare un peso per i familiari, il timore dell’accanimento terapeutico e di una tecnica medica ostinata e intrusiva. A questo si aggiunge la percezione di perdere la propria dignità. Sono elementi diffusi e condivisi, ma «l’esperienza mostra che un trattamento antidolorifico efficace, una lotta adeguata contro i sintomi e una cura umana e affettuosa sono gli atteggiamenti più adatti a cancellare il desiderio del suicidio e ad aprire nuove prospettive».
A fianco di queste dimensioni personali c’è una responsabilità sociale, anzitutto verso le cure palliative, largamente riconosciute, ma spesso poco sostenute. Non è necessaria una nuova legge, ma pratiche sociali che facciano emergere la sostanziale vicinanza fra omicidio e assistenza al suicidio. Il fatto che quest’ultimo sia socialmente organizzato ed emozionalmente meno traumatico non dovrebbe portare una società a ignorare la proprie responsabilità in merito, favorendo la banalizzazione e una consunzione dell’ethos collettivo. La Corte europea dei diritti ha sancito l’impertinenza di invocare la libertà di autodeterminazione come diritto al suicidio e il suo contrasto con le leggi nazionali. Il suicidio è contrario al desiderio naturale del vivente e l’espressione di una volontà di morte nasconde spesso altre ragioni: fragilità della persona, pressioni familiari, bisogno di riconoscimento, depressione ecc. Quanto alla dignità della vita è bene distinguere la dignità percepita (che può conoscere oscuramenti) dalla dignità obiettiva che è inalienabile per ogni essere umano. Togliersi la vita è una scelta che incrocia sempre molte altre persone, a partire dai familiari. Favorire mediaticamente il consenso al suicidio apre possibilità inquietanti: si potrà invocarlo per malattia o depressione o per delusione amorosa, ad esempio.
Per la rivelazione cristiana il suicidio non rispetta il progetto di amore e di vita del creatore. «Ogni assopimento dell’interdetto all’uccisione significa una regressione culturale. L’assistenza al suicidio non deve diventare una prestazione di servizio, normale e socialmente riconosciuta, perché costituisce la partecipazione ad un atto obiettivamente ingiusto». Per gli operatori ospedalieri va ricordata una delle sentenze fondamentali di Ippocrate circa il «primum non nocere» (anzitutto non fare del male). Aborto e suicidio tendono a diventare nella percezione comune dei diritti, trasformando la depenalizzazione in un atto positivo. È difficile rimuovere la contraddizione di questi gesti rispetto all’etica della cura medica. Anche le persone gravemente malate possono avere una soddisfacente qualità di vita, grazie alle cure palliative, all’accompagnamento e all’amore.
Accompagnare fino a dove?
L’accompagnamento ecclesiale inizia col prendere sul serio le intenzioni suicidarie nella speranza che possano essere reversibili, che dietro l’affermazione di morte si nasconda un desiderio positivo da decifrare. Il procedimento dell’atto eutanasico è raccontato così: «La persona che desidera porre fine ai propri giorni prende contatto con l’organizzazione di assistenza al suicidio e trasmette ad essa il dossier medico. Se l’associazione accetta di intervenire hanno luogo colloqui preparatori; poi, auna data fissata, uno o due membri dell’associazione, che in generale non sono medici, vanno al domicilio della persona o alla istituzione ospedaliera dov’essa risiede. La persona riceve anzitutto un medicamento anti-vomito per evitare che il liquido mortale non venga rigettato, poi, nell’arco di una mezzora, ingerisce da se stessa la soluzione letale.
A partire da questo momento, il tempo di attesa quando la persona resta cosciente dura diversi minuti per poi entrare progressivamente in uno stato comatoso e infine morire. Il processo è lo stesso, ma più rapido se il medicamento è amministrato per via endovenosa. È sempre la persona interessata che apre il rubinetto della trasfusione». Può durare dai 7 minuti alle 18 ore con una media di 25 minuti, che diventano 16 per via endovenosa.
Succede che malati suicidari chiedano l’accompagnamento spirituale e l’operatore pastorale può farlo a testimonianza di tutta la comunità cristiana e della speranza di un cambiamento di decisione. Il giudizio ecclesiale sul suicidio è chiaro: un atto intrinsecamente cattivo. L’esempio di Gesù che denuncia il peccato e accoglie il peccatore guida il discernimento dell’operatore pastorale, quello cioè di «accompagnare il più lungamente possibile le persone che hanno deciso un suicidio medicalmente assistito». Ma fin dove? «In maniera chiara, l’agente pastorale ha il dovere di abbandonare fisicamente la camera del malato nel momento stesso dell’atto suicidario». Questo non significa trascurare le persone, ma porre un segno visibile di non cooperazione all’atto, oltre che salvaguardare l’indirizzo ecclesiale e non essere travolti da possibili e devastanti impatti psicologici. Secondo il prudente giudizio dell’interessato, l’operatore pastorale può tornare nella camera per accompagnare gli ultimi momenti del suicida.
L’ultima ora
Necessario e difficile il discernimento anche relativamente ai sacramenti dell’unzione degli infermi e dell’eucarestia dei malati. «Non possono essere celebrati come preparazione al suicidio. Può tuttavia succedere che amministrare un sacramento abbia la sua ragione nell’accompagnamento pastorale». In particolare quando vi sia speranza di un ripensamento. «Se le affermazioni e l’agire indicano che la persona ripensa la propria decisione e si ravvede i sacramenti possono essere celebrati. Se quello che essa dice e decide va nella direzione del suicidio assistito, l’amministrazione dei sacramenti deve essere posticipata o negata». Quando l’interessato esprima anche solo una domanda di chiarificazione i sacramenti possono essere dati.
Il documento sottolinea il combattimento spirituale dell’ora della morte come momento capitale della vita di ogni essere umano dentro il quadro della sua libertà. Anche il suicida va incontro al Signore della vita, «l’unico a giudicare la libertà soggettiva e dunque la sua responsabilità». Per la preziosità di questi ultimi momenti «se l’agente pastorale è chiamato presso la persona morente, dopo che essa ha ingurgitato il prodotto letale, non è da impedire l’accompagnamento anche negli ultimi attimi di coscienza». Attorno al nucleo del morente resta il lavoro sulle famiglie e sulle persone prossime, presso le quali il gesto lascia traccia indelebile, dando luogo a sentimenti molto confusi di sofferenza, di colpevolezza, di profonda inquietudine.
Alcuni casi
Nella terza parte del documento si enunciano come esempi alcune situazioni particolari che non esauriscono il tema, ma che possono essere chiarificate all’operatore pastorale. Ne segnalo la semplice enunciazione, lasciando lo sviluppo alla lettura del testo.
- «Una persona spiega al cappellano: “Sono membro di una organizzazione di assistenza al suicidio perché ho paura di soffrire, di morire soffocato, di diventare un peso insopportabile per i miei vicini e per la società. Sono credente, vorrei l’accompagnamento spirituale e i sacramenti”».
- L’operatore pastorale si trova davanti all’affermazione: “Perché prolungare inutilmente le mie sofferenze? La mia vita non che una lunga agonia. E questo non cambierà. Continuare a vivere non significa che sofferenza per me e la mia famiglia”».
- Una persona si esprime così all’operatore pastorale: “Sono nella fase terminale della malattia, soffro sempre di più, non ho alcuna qualità di vita ed essa non ha più un senso. Non sono più nessuno. Sono solo un peso. Ho deciso di contattare una organizzazione di assistenza al suicidio per mettere volontariamente fin alla mia vita. Le cose sono in via di chiarifica dal punto di vista medico, amministrativo e giuridico. Nonostante questo vorrei ricevere la comunione e l’unzione degli infermi”».
- Una persona così informa: “Tutto è pronte e organizzato perché possa abbandonare la vita sabato prossimo, grazie all’azione di una organizzazione per il suicidio assistito. Prima però vorrei ancora ricevere i sacramenti”».
- «Altra testimonianza di un paziente: “Dopodomani metto fine ai miei giorni con una organizzazione di assistenza al suicidio. Mi piacerebbe non andarci da solo ma con qualcuno che mi accompagni. Come cappellano siete disposto a rimanermi vicino in quell’istante decisivo?”».
- «I famigliari di una persona gravemente malata sono disperati: essa ha scelto di ricorrere al suicidio assistito e i preparativi sono in corso. Si attendono dall’operatore pastorale che li sostenga per cambiare l’intenzione della persona malata. Anche il personale curante può reagire così».
- «L’agente pastorale costata che i famigliari fanno una certa pressione sulla persona malata e sul cappellano perché si attendono da lui una via libera al suicidio assistito per rabbonire la loro coscienza. Amerebbero disporre di un rituale per vivere il passaggio nella dignità».
- «In una residenza medico-sociale il personale curante si trova davanti alla presa in carico di una persona che si prepara al suicidio assistito. Sono sconvolti e vivono la cosa con difficoltà. Essi avvertono l’inquietudine e le reazioni negative degli altri pazienti».
- «La direzione della residenza medico-sociale è critica verso l’azione pastorale. I responsabili non auspicano che i residenti siano “indottrinali o influenzati” perché si favorirebbe la loro “cattiva coscienza” Si pronunciano in favore dell’autodeterminazione dei residenti».
- «Dopo il suicidio assistito le persone interessate auspicano di beneficiare di un sostegno di un rituale di addio, di funerali cristiani».