La visione di un’assemblea di 870 superiore generali come quella riunitasi all’Ergife di Roma per la loro ultima plenaria (9-13 maggio 2016), fa sempre un certo effetto. Che fossero concrete “tessitrici di solidarietà” nelle realtà più periferiche del mondo e della Chiesa, era risaputo. Forse non lo era fino al punto di quel realismo con cui ne hanno parlato le diverse relatrici.
Sr. Carol Zinn
Per capire il mondo in cui viviamo, «dobbiamo spostarci dalla nostra posizione, non solo metaforicamente e figurativamente, ma anche letteralmente», ha esordito sr Carol Zinn (Suore di S. Giuseppe, Filadelfia). C’è bisogno di una “vera conversione”. Diversamente potremmo essere tentate di riunirci qui, lasciarci ispirare le une dalle altre, lasciarci mettere in discussione le une dalle altre e poi (tornate a casa nostra) svegliarci la mattina dopo e continuare le nostre vite e il nostro ministero come se nulla fosse, come se questa assemblea si fosse tenuta su un altro pianeta».
Questa assemblea si tiene a 13 mesi di distanza dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, «una riflessione profetica, poetica, toccante e pratica, che è, al tempo stesso, una chiamata alla conversione». Oggi non bastano più né la collaborazione, né la cooperazione. È indispensabile passare al partenariato, cioè all’insieme di più persone che «lavorano per creare un obiettivo congiunto liberamente e volontariamente, usando processi e risorse per conseguirlo e applicando reciprocità totale di potere, e influenza sull’esito».
Esistono moltissimi progetti, a dir poco meravigliosi, che dimostrano la capacità delle religiose di lavorare insieme a servizio del popolo di Dio e del suo Creato. Ma «siamo abbastanza mature per creare veri partenariati? Perché non impegnarsi a «trasformare la nostra visione del mondo, modificando la nostra capacità di essere compassionevoli, rivoluzionando i nostri ambienti sicuri, liberandoci della nostra compiacenza e svincolandoci dalla nostra inerzia?».
In un’epoca come questa, non è più possibile sottrarsi alle provocazioni della Parola e del Creato stesso di Dio: «Ci siete, religiose? Qual è la vostra visione del mondo? Vedete davvero cosa avete davanti agli occhi? Vedete davvero le tante opportunità che vi sono offerte di proporre una risposta radicale al Vangelo, in quest’epoca storica e culturale?».
Sr. Mary Sujita
«Sono qui come una voce della periferia» ha esordito sr Mary Sujita (Suore di Notre Dame), con alle spalle «i miei molti anni di esperienza vissuta fra uno dei più emarginati gruppi di persone nel Bihar, India, che hanno formato la mia spiritualità e sfidato il mio modo di essere una religiosa e una missionaria».
Sollecitate dalle parole di papa Francesco che spinge per “una chiesa povera con i poveri”, in un’assemblea come questa, le religiose non dovrebbero sottrarsi ad alcune “difficili domande” di cui, sr. Mary ha di fatto intessuto tutta la sua relazione.
Pensando a Gesù, un autentico “attraversatore di confini”, le religiose dovrebbero chiedersi se per caso non stiano riducendo il “pungolo profetico” insito nella loro chiamata, «riempiendosi la bocca del più recente gergo profetico, teologico e sociologico, che ci dà la buona sensazione di fare la missione di Dio anche quando siamo occupate a compiere la nostra personale missione di conservare il passato, proteggere le nostre istituzioni o legittimare il presente!».
Mai come oggi, forse, si sta “teologizzando e scrivendo” sulla scelta radicale a favore di poveri e bisognosi. E se, invece, anche le religiose fossero «parte del sistema che crea e sostiene la povertà e lo sfruttamento?». Di fronte a tutti i beni di cui godono spesso le religiose, a tutte le comodità che vengono date per scontate, a tutte le sicurezze date per acquisite, «mi piacerebbe – commenta sr. Mary – che potessimo chiedere al povero di darci una valutazione onesta della nostra vita consacrata come lui la vede e la sperimenta!».
«Quelle di noi che sono chiamate alla vita consacrata in questo momento della storia del mondo, saranno donne che rischieranno di abbandonare le loro sicurezze e comodità e si sposteranno nelle periferie esistenziali e geografiche col messaggio evangelico di speranza, gioia e vita nella sua pienezza? Possiamo, noi religiose, affermare con convinzione e impegno che non vogliamo che i nostri carismi siano così istituzionalizzati e centralizzati da farci perdere il “pungolo profetico” proprio della nostra chiamata per avvicinare discepolato e missione?».
«Sorelle – ha concluso sr Mary – «cos’altro ci rimane da fare come discepole di Gesù, nella nostra fedeltà a Cristo e alla sua missione? Noi che abbiamo tutto, e spesso siamo fra le donne privilegiate del nostro mondo, di che cosa abbiamo paura?».
«Le opzioni che abbiamo di fronte sono molto limitate: o viviamo una vita religiosa profetica con tutte le sue conseguenze di testimoni della vita e della missione di Gesù in termini reali, o scompariamo come una realtà irrilevante».
Sr. Márian Ambrosio
Se le religiose sono “speciali” non per ciò che fanno, né perché lo fanno, ma per come lo fanno, allora è inevitabile la domanda: «Come stiamo vivendo, come stiamo testimoniando?».
Su queste chiare premesse, la brasiliana sr Márian Ambrosio (Suore Divina Provvidenza), ha imperniato tutta la sua relazione. Lo ha fatto con una serie di considerazioni prima sulla realtà attuale della vita religiosa apostolica femminile e poi sui segni che “sogniamo di abbracciare”.
Anche lei ha dato ampio spazio a tutta una serie di interrogativi, lasciandone emergere, comunque, il loro aspetto più positivo e propositivo. Non è detto – ha chiarito subito – che la sfida più importante attuale sia il calo vocazionale in occidente. Lo è molto di più la «qualità dell’invito vocazionale che rivolgiamo oggi alle giovani». Se si è convinte veramente di quanto sia importante imparare dalle giovani ciò che riguarda il modo di vedere la vita, di coltivare la fede, di integrare valori, di stabilire relazioni, di annunciare il Vangelo, di seguire Gesù, allora quando entrano in una casa religiosa potranno incontrare non delle “macchine”, ma delle “tessitrici”. Quando si entra in dialogo con loro sul carisma, sulla missione, «riveliamo la mistica che segna la nostra identità fondamentale o facciamo sfilare davanti a loro la quantità di luoghi, case, attività che abbiamo per il mondo? Stiamo incoraggiando la gioventù a seguire con noi Gesù, o stiamo distribuendo biglietti vocazionali con foto e immagini che idealizziamo su noi stesse?».
Il fatto di essere sempre numericamente più poche, potrebbe rivelarsi una chance, una grande opportunità per una vita consacrata più significativa, più evangelicamente radicale.
Quando si incontrano le responsabili di una congregazione religiosa, oggi le domande sono sempre quelle: «Avete ancora delle novizie? E le giovani? Quante?… E le opere?”. «Quante riunioni, quante consulenze, quanti tentativi di percorrere quello che un tempo fu il nostro luogo apostolico: collegi, ospedali, spazi sociali per bambini, adolescenti, donne e tante persone che incontravano nelle nostre congregazioni la risposta alle loro grida che invocano una vita più dignitosa. Quante generazioni di religiose hanno dato la loro vita in questi spazi sacri di cura attraverso l’istruzione, la salute, la carità sociale».
Fino a che punto ci si rende conto del fatto che queste stesse opere sono oggi «il nome della nostra crisi?». Il superamento della crisi non sta tanto nell’abbandono delle opere, ma nella consapevolezza che «il nostro posto, come religiose, non è lì dove abitiamo, o lì dove lavoriamo; il nostro posto è dove amiamo, dove testimoniamo». Che cosa? Il carisma delle origini in risposta alle attese del mondo di oggi.
Ma allora, nei confronti delle opere, che fare? Mantenerle? Venderle? Donarle? Nei carismi di fondazione andrebbe recuperata la parola centrale: amore. Quando questa parola diventa il luogo teologico e profetico della vita di una congregazione religiosa, allora sarebbe fin troppo facile capire se una determinata opera apostolica possa essere trasferita o meno ad altre persone, ad altri gruppi.
Ricette pronte per l’uso, non esistono. C’è invece una “porta aperta” su due realtà sempre più attuali: il partenariato e la rete. Queste due dinamiche hanno un unico obiettivo, quello di “fare le cose insieme”.
Non è sicuramente facile «infrangere le frontiere, condividere vita ed esperienze, stabilire un’alleanza fra differenze culturali, storiche, geografiche, religiose». C’è, però, qualcosa che può aiutare a superare queste frontiere, e cioè la consapevolezza di dar vita a qualcosa di muovo, nel nome di Dio, che «ci invia a testimoniare il suo amore e non tanto a costruire le nostre opere».