Lo chiamano “compimento”: un termine che dice il raggiungimento del proprio scopo e la fine della propria ragion d’essere. Nell’Occidente cristiano un numero significativo di istituti religiosi, maschili e femminili, va verso l’estinzione. Chiusure di comunità, accorpamenti di istituti, difficoltà di leadership, invecchiamento e scarsità di vocazioni si accumulano creando le premesse della fine.
Nella storia della Chiesa è già successo molte volte, ma non in forma così generalizzata. Lo aveva già detto Giovanni Paolo II in una catechesi del 1994: «Nessuna forma particolare di vita consacrata ha la certezza di una durata perpetua. Le singole comunità religiose possono spegnersi. Storicamente si constata che alcune sono di fatto scomparse, come del resto sono tramontate anche certe Chiese particolari. Istituti che non sono più adatti alla loro epoca, o che non hanno più vocazioni, possono essere costretti a chiudere o ad unirsi ad altri. La garanzia di durata perpetua fino alla fine del mondo, che è stata data alla Chiesa nel suo insieme, non è necessariamente accordata ai singoli istituti religiosi».
Un’acuta interprete della vita consacrata, sr. Noelle Hausman, aggiunge: «Devastata dagli abusi, spogliata da tempo della propria utilità sociale, la vita consacrata così come la si riscontra nella Chiesa cattolica di rito latino non sta forse estinguendosi sotto il peso congiunto delle infedeltà e della disaffezione dei contemporanei, soprattutto cristiani? Molti lo pensano e alcuni, anche fra le autorità responsabili, provvedono ad anticipare i tempi declinando come velleitaria ogni speranza, dal momento che sembra inutile andare contro la storia. Non è forse considerato un comportamento saggio e realistico?».
Alcuni decenni fa uno dei teologi più attenti, Hans Urs von Balthasar, scriveva: «Può accadere talvolta che le compagini delle istituzioni temporali si allentino; esse sono veramente temporali, il tempo le divora e le logora, molte cose arrugginiscono, marciscono, devono essere sostituite; addentellati in apparenza solidi si staccano, lasciano intravedere la luce o anche il buio».
Può quindi succedere, ma – come annota una suora canadese – «il punto focale non è tanto il futuro della vita di questa o quella congregazione, ma il futuro della vita consacrata nella nostra Chiesa».
Il compimento
Una Chiesa locale può restare priva dei religiosi e delle religiose senza esserne ferita? Gli indicatori comuni, declinati secondo intensità diverse, sono riconosciuti nei processi di secolarizzazione, nel calo della pratica religiosa, nelle famiglie più ridotte e con minore disponibilità a sostenere una scelta simile del figlio o della figlia, nella delegittimazione culturale di scelte “per sempre”, nelle molte modalità di “servizio” nella Chiesa e nella società, nella scarsa possibilità delle generazioni giovani di incontrare figure religiose. Si può aggiunge il peso dello scandalo degli abusi sessuali, la mancata inclusione in ruoli di responsabilità delle donne, la persistenza di indicazioni morali considerate passatiste (omosessualità, convivenze…), l’invecchiamento ecc.
E tutto questo nonostante il riconoscimento che la vita monastica e di consacrazione abbia dei paralleli antropologici in molte religioni, e che, per la prima volta, tutte le confessioni cristiane convergano sul valore evangelico della scelta religiosa.
Essa conosce un significativo ancoraggio in paesi non occidentali, un radicamento e l’avvio di una interpretazione originale dei carismi fondativi in altre culture. Finora si trattava di una semplice espansione del modello europeo, ora si assiste a un movimento creativo, anche se pieno di incertezze. L’Occidente non è più centrale e non ne determinerà il futuro, ma il suo peso non va sottovalutato.
Una duplice tentazione
Al problema del “compimento” il dicastero della vita consacrata ha dedicato un lungo e silenzioso lavoro. I primi confronti risalgono al 2015, una sperimentazione si è compiuta in Olanda con l’approvazione vaticana, nel 2022, delle linee guida per il governo e l’amministrazione dei beni degli istituti diocesani in chiusura (cf. SettimanaNews, qui).
Fra il settembre scorso e il marzo di quest’anno una serie di quattro incontri per aree linguistiche ha permesso di precisare il quadro teologico, i passi per favorire la consapevolezza, il futuro delle opere, la collaborazione coi laici, le competenze delle conferenze nazionali dei religiosi/e, i rapporti con le Chiese locali e con il dicastero. Un percorso in cui il carisma informa anche la fine dell’istituzione ecclesiale e lascia traccia in ciò che sopravvive.
Per p. Pier Luigi Nava, sottosegretario del dicastero: «Un’istituzione, nel corso del tempo, avverte progressivamente di non essere più in grado di soddisfare le aspettative ecclesiali derivanti dal cosiddetto carisma fondazionale e non ne fa un dramma. Allo stesso tempo, si rende consapevole di aver adempiuto al proprio compito nella Chiesa. Supera così la duplice tentazione di richiudersi in sé stessa e di rendersi sorda ad un dialogo ecclesiale (“non venite a creare altri problemi”) o di rimuovere i propri limiti finendo nel corto circuito di una miope autoreferenzialità (“noi siamo noi e bastiamo a noi stessi”). Nell’orizzonte dell’esperienza di fede, la percezione del compimento si verifica come un progressivo esercizio di distacco, nella logica paolina della “perdita” per riscoprirci – nonostante tutto – nella grazia della fedeltà al dono di Dio. Grazia che precede e accompagna anche l’esito dei nostri limiti».
Il diritto silente
Per il diritto canonico un istituto religioso si chiude con la morte dell’ultimo religioso o religiosa. In linea di massima, esso presuppone la crescita e la continuità e non contiene indicazioni relativamente al tramonto e al compimento. Così è anche del diritto proprio degli istituti. Non vi sono manuali né letteratura canonica in merito. La cosa si complica anche per le esigenze del diritto civile e del diritto concordatario (dove è in vigore).
Il problema tocca solo tangenzialmente gli istituti internazionali, interessando soprattutto i piccoli istituti diocesani che magari hanno un’unica presenza all’estero. Diventa necessario il rapporto con il vescovo locale e i suoi collaboratori. Scarsa competenza, mancanza di fiducia, poca trasparenza possono rendere difficile l’impresa. I religiosi/e si attendono la comprensione del loro carisma, una comunicazione efficace, il rispetto dell’autonomia e dei diritti di proprietà.
Da parte delle diocesi, si chiede di riconoscere la competenza e l’autorevolezza dei consulenti che possono avere, per esempio sul fronte economico e finanziario, una parola importante da dire. In generale, una leadership condivisa richiede un’accurata selezione di laici a cui, forse, riconoscere una sorta di ministero di fatto.
In Belgio e nella diocesi di Bruxelles è nata un’associazione senza scopo di lucro, sostenuta dai vescovi, che permette di trasferire le proprietà di alcune decine di congregazioni diocesane assicurando la continuità del servizio o avviando altri interventi caritativi.
A Vienna è sorta una “rete” per gli ordini religiosi che sono “sulla soglia” del compimento in cui suggerire i passi e le misure da prendere prima che la situazione diventi ingestibile. L’obiettivo dovrebbe essere quello che ogni istituto abbia nel cassetto una traccia per il compimento.
Diocesi e conferenze nazionali dei religiosi
Oltre alle diocesi, è necessaria una nuova responsabilità per le conferenze nazionali dei religiosi/e. La loro funzione di sostegno, di aiuto e di accompagnamento richiede un riconoscimento di autorità che non è ancora previsto dal codice. Pur salvaguardando l’autonomia decisionale dentro i singoli istituti, si potrebbe riconoscere alla conferenza un ruolo di supervisione, a garanzia del carisma e anche per impedire che ingenuità e nepotismi possano dissipare i beni ancora disponibili. Questo comporta cambiamenti all’interno delle conferenze e anche un più impegnativo finanziamento e reperimento di competenze.
Quali sono i segni della crisi? Si può accennare ai numeri dei sodali, soprattutto quando non permettono più di indicare una leadership (provinciale, consiglio, economo, superiori). Oppure quando non si è più in grado di offrire un percorso formativo, o per situazioni personali diffuse e difficili (malattie, scandali) o per gravi dissesti finanziari. Può succedere che la crisi venga evidenziata dall’assistente, dal visitatore, dal commissario apostolico.
Altro segnale è la decisione di non accettare più vocazioni o di non avere né comunità né competenze che se ne facciano carico. Fra i motivi della crisi, il riferimento agli abusi torna nella testimonianza di molti esponenti religiosi delle nazioni più colpite (finora). Così è in Francia come nei paesi anglosassoni.
Un religioso canadese ammette: gli abusi e gli insabbiamenti «hanno causato danni devastanti… Questi eventi terribili ci spingono a rivedere i modelli di Chiesa che hanno permesso l’abuso di potere e le false immagini di Dio».
Un religioso statunitense afferma che, sulla mancanza di vocazioni, incide «la crisi degli abusi sessuali che hanno equiparato soprattutto il sacerdozio, ma anche tutta la vita religiosa maschile, a una sessualità repressa e malsana… Dato che gli Stati Uniti sono stati l’epicentro originario di questa crisi, essa sembra aver inciso in modo particolare sulla gente che è diventata scettica sulla possibilità di una sana vita celibataria».
Ciclo di vita
È stato R. Hostie (Vie et mort des ordres religieux, Paris 1972) a tracciare con efficacia il ciclo di vita degli istituti religiosi. La loro durata è prevista in circa due secoli e mezzo. Ma il ritmo attuale sembra più rapido. Hanno ripreso il tema G. Rocca (“Ciclo di vita degli istituti religiosi e ciclo di vita delle istituzioni di vita religiosa”, in Recollectio 2017, n. 2) e P.L. Nava (“Il ciclo di vita di un istituto di vita religiosa”, in Vita consacrata 2010 n. 6).
Il morire attraversa non solo i numeri e gli anni, ma l’identità profonda della vita consacrata. In positivo, perché essa nasce fin dall’inizio come “sostitutiva” del martirio nella generosità della sequela, nella serietà del servizio ai poveri e nel severo esercizio del lavoro agricolo o intellettuale. In negativo, quando la paura della morte (delle persone, delle opere, della reputazione ecc.) «finisce per avere la meglio sulle opere della vita, in ragione di una sorta di apostasia silenziosa che rinuncia a credere che Gesù, con la sua passione e la sua morte, riduce “all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo”» (N. Hausman).
Al cambiamento del ciclo di vita degli istituti corrisponde quello dei singoli religiosi. Per secoli i religiosi/e morivano fra i 40 e i 50 anni, rimanendo impegnati fino alla fine della loro vita.
Oggi si è aperto un periodo, più o meno largo, fra la fine della propria missione e la morte. Un tempo affidato in generale all’inventività dei singoli.
Un piccolo spaccato è offerto da sr. D. Faltz per una comunità di suore del Lussemburgo. Tutte ampiamente oltre i 65 anni, sono consapevoli che la missione della loro congregazione è al termine, ma continuano a servire i malati e gli anziani, vivono con serietà la vita comune, partecipano, nel limite del possibile, alla Chiesa locale, continuano a investire sulla formazione carismatica i laici che hanno preso in carico i loro servizi.
Accettare il cambiamento
«Il percorso di compimento, seppur segnato dal tempo, ha un traguardo oltre il tempo, superamento che non appartiene a noi, ma al Signore. Temporalità che non sfugge alle amarezze, fatiche e disillusioni. Non c’è percorso di vita consacrata che non sia segnato dal mysterium Crucis. Non di meno il compimento rimane sub lumine Crucis. Non ci sarà dato di capire fino in fondo, il perché; molte cose ci sfuggono anche ricorrendo ad elaborate analisi storico-sociologiche. Da qui la necessità di un accompagnamento “personalizzato” che aiuti ad affrontare il compimento non con spirito di rassegnazione, bensì con lucida e serena consapevolezza, sapendo che non si rimane “soli”. Abbiamo accanto fratelli e sorelle della nostra Chiesa che sanno prendere a cuore le nostre vite, la nostra causa, perché essa è e rimane causa della Chiesa» (P.L. Nava).
Si tratta, quindi, di accettare la realtà del cambiamento, della perdita e persino della morte, smettendo di sognare che un futuro sia possibile tornando al passato.
Nella storia i momenti più critici sono talora il presupposto per la rinascita imprevista e sorprendente. In ogni caso, è necessaria una decisione di scelta di vita, una capacità di lasciarsi cambiare in profondità.
La priorità del consacrato è sempre quella: quaerere Deum, cercare il Signore. E, tuttavia, è saggio approntare le competenze laiche e religiose per l’animazione, la vita spirituale, l’amministrazione, l’assistenza, i beni e gli archivi.
Mons. J.R. Carballo, segretario del dicastero, ha ricordato: «Benedetto XVI ha invitato i religiosi a riconoscersi minoranza. Non è facile accettarlo. Dobbiamo abbracciare la nostra condizione di minoranza. Ci ha anche detto di non diventare profeti di sventura. Se diciamo che questa vita sta per morire, se siete convinti di questo, è meglio che andiate via subito prima che la nave affondi. Se siamo su questa nave è perché crediamo nel valore della vita consacrata».
E un religioso irlandese aggiunge: «C’è il rischio che chi entra non riceva il sostegno di cui ha bisogno per mantenere e far crescere la propria vocazione e la propria ricerca di Dio. Alcuni membri delle congregazioni si oppongono alle entrate, come se temessero che, accettando i nuovi arrivi non si possa soddisfare il loro mantra della diminuzione».
Il carisma è della Chiesa
L’istituzione non è il carisma, come il governo non è lo Spirito, ma il carisma viene “espresso” in istituzioni e i doni carismatici hanno bisogno di quelli di governo. Il carisma è vissuto nell’istituzione ma non si identifica con essa. Il carisma appartiene alla Chiesa e la chiusura nel tempo di un’istituzione non impedisce i curiosi percorsi carsici dei doni spirituali.
Non c’è, quindi, possibilità di una trasmissione a terzi come se il carisma fosse un’eredità di cui fare libero uso. Semmai la domanda riguarda la crisi che interessa non le singole istituzioni o congregazioni, ma la loro forma, in particolare la forma apostolica, egemone da alcuni secoli. È davvero superata? Ha possibilità di rinascere, e come?
Le domande rimbalzano sull’accresciuta responsabilità della vita consacrata fuori del quadrante europeo, su forme antiche che tornano e sulle forme nuove che stanno emergendo. Eremiti, ordo virginum, ordo viduarum, beghinaggi sembrano chiedere nuovi spazi, seppur marginali.
Sul versante della novità si collocano le “famiglie ecclesiali”, cioè quegli istituti che uniscono in un’unica struttura canonica soggetti consacrati, chierici e laici. Strade antiche e nuove, non esenti da prove e ferite, che riaprono il panorama della vita consacrata e sollecitano una nuova attenzione a ciò che lo Spirito chiede alla Chiesa.
La crisi della vita consacrata in “occidente” è crisi di fede. È la stessa crisi di fede che investe i fedeli laici ed il clero, altro che persistere dei “passatismi”. I (dis)valori contemporanei (poco o niente controbilanciati dai valori che pure resistono) scavano un abisso nei nostri cuori facendo perdere di significato il Vangelo di Cristo, inteso non come mero solidarismo ma per quello che è, cioè salvezza del mondo, ritorno di Cristo in gloria, vita nuova nel suo amore. La crisi della vita consacrata è la più grande cartina di tornasole della nostra crisi di fede perché essa costituiva l’avamposto della fede, la scelta della radicalità evangelica. Un autentico segno del secolo futuro nell’oggi.
Purtroppo non è dato sapere fin dove questa crisi ci porterà. Faremo la fine delle chiese del vicino oriente? Quasi scomparse nel breve volgere di qualche secolo tra il XIV ed il XV? Oppure ci sarà un risveglio? O, ancora, la fede in Occidente si inabisserà in piccole comunità, magari seminali di qualcosa di nuovo in un lontano futuro?
Io credo che l’attuale struttura ecclesiale collasserà su se stessa nel breve volgere di qualche decennio e noi laici saremo lì (se Dio vorrà) a metterne insieme i cocci.
Buongiorno, quando i superiori di Padre Pio gli si presentarono per mostrargli gli ” aggiornamenti” lui li tratto’ in malo modo. Aveva già capito chi era la causa della distruzione dell’ ordine. Lo stesso vale per tutti gli ordini religiosi. Nell’ articolo si resta alla superficie evitando la vera causa cioè l abbandono della preghiera , della teologia scolastica, della filosofia cattolica e di una vita di sacrifici. La riprova si vede nel rifiorire di vocazioni dove si era tornati all’ origine. Penso ai frati di Padre Manelli torturati fino allo sfinimento e obbligati ad andarsene. Anche la fraternità San Pio X continua ad avere vocazioni abbondanti in relazione al loro numero. Il fatto è che si rinuncia alla fede per innestarsi nella sociologia da ONG. Mauro Mazzoldi
La Fraternità San Pio X ha tante vocazioni, forse anche troppe… Perché dal punto di vista qualitativo tra gli italiani hanno ordinato persone instabili: preti dichiaratamente fascisti, preti egocentrici, preti che hanno lasciato il sacerdozio e la fede. Poi il livello di insegnamento ad Econe a detta di molti è scarso
Si ricordi che giudicare la fede degli altri ( ordini religiosi) è molto pericoloso. Le vocazioni abbondanti, di cui parla, esprimono un dato quantitativo ma non per forza qualitativo…
Complimenti per l’articolo ben fatto. Aggiungerei solo una nota sull’ultimo paragrafo. Le nuove realtà ecclesiali sono sostanzialmente simili a quelle che le hanno preceduto. Non c’è una vera novità se non nell’unione degli stati di vita (che non di rado appiattisce tutto). Per questo motivo dopo un po’ di tempo, sviluppano le stesse problematiche delle congregazioni più antiche. Una vera riforma della vita consacrata forse sarebbe urgente ma a mio avviso, la paura è tanta. Ed è dunque un problema di fede.