Dehoniani e il sociale /1. Contesti

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Foto di Sohrab Hura.

Questo testo è la sintesi di una settimana di lavoro seminariale svolto nel quadro dell’offerta formativa del Centro Studi Dehoniani della Curia generale della Congregazione. Raccoglie il confronto e i contributo dei confratelli che vi hanno partecipato.

Nel declinare il versante sociale del carisma di fondazione la Congregazione dehoniana è chiamata a muoversi incessante fra contesto – quello di p. Dehon – e contesti – quelli in cui sono inserite le sue forme di vita comunitaria. Una attivazione di questo genere può sembrare scontata ma, in realtà, si tratta di un processo non semplice; anche perché il rischio della mera trasposizione delle attività a cavallo tra XIX e XX secolo del fondatore, come quello di un semplice richiamo formale all’esperienza delle origini, è sempre in agguato. Anzi, rappresenta la tentazione che accompagna ogni tentativo di attualizzazione del lascito spirituale che dà forma alla fede.

Avere e coltivare competenze, quindi sentire passione per leggere i contesti in cui siamo inseriti, che consentano un’intelligenza evangelica della contemporaneità dello spazio di vita concreto è un’esigenza di fedeltà alla storia spirituale che ci ha generato. Non si tratta solo di una percezione immediata delle società, ma anche e soprattutto di uno sguardo analitico che sa andare a fondo dei modi in cui esse si organizzano. Perché è solo così che si potranno cogliere quelle ingiustizie sistemiche che convocano l’attivazione pratica delle nostre risorse spirituali.

Nelle storie del nostro tempo

Se una cosa Dehon ha lasciato alla sua Congregazione sul versante sociale, è esattamente una interrogazione critica dell’organizzazione strutturale della socialità condivisa. Questo vale più delle interpretazioni che Dehon diede al suo tempo, sulle quali, sotto molti aspetti, si può dissentire o sentirle lontane dal nostro modo di pensare l’incrocio fra la storia comunemente umana e la destinazione a essa della Chiesa cattolica. Vale di più, perché indica una disposizione di fondo nella quale traspare la passione e dedizione per l’umano che ci è prossimo, che cammina sulle nostre strade, che va a fare la spesa nei negozi in cui entriamo anche noi.

Questa adesione, evangelica e per questo critica, alle storie del nostro tempo, ai vissuti che lo abitano, è richiesta da quella sensibilità spirituale che si plasma, giorno per giorno, nella devozione al Sacro Cuore intorno a cui p. Dehon ha fatto ruotare non solo la sua vita personale, ma anche quella di fondatore della Congregazione. Consapevoli che nessuna disposizione dello spirito è politicamente neutra; e che anche le immagini più evocatrici dell’intimità di Dio possono essere brandite come uno strumento di colonizzazione delle anime e dei rapporti sociali.

Per questo è decisivo avere una conoscenza storica, che non può non essere anche socio-politica, di Dehon e il suo tempo – e di Dehon nel suo tempo. Conoscenza che la Congregazione si è preclusa, non senza responsabilità, per lungo tempo. La sospensione della beatificazione di p. Dehon voluta da Benedetto XVI ha consentito di uscire dalla alternativa tra protezione del mito delle origini e uccisione (ri)fondatrice del padre. Ma questo sapere storico e contestuale, oggi ampiamente disponibile e accessibile, sembra essere ancora carente nella coscienza diffusa della Congregazione.

Essa è dirimente anche sul piano della spiritualità dehoniana – esattamente per evitare una colonizzazione spirituale, di matrice europea, delle realtà della Congregazione non occidentali e del sud del mondo. Il rischio di una spiritualità preconfezionata, che viaggia come un pacchetto immune dalla vecchia Europa, addirittura quella di fine ‘800, verso i nuovi territori di presenza globale della Congregazione, è la storia di molte entità nate dall’opera missionaria dei confratelli dehoniani. In questo modo, il nocciolo duro dell’identità dehoniana si presenta inevitabilmente come un corpo estraneo in seno a comunità territoriali imbevute di storie, culture e tradizioni altre rispetto a quelle europee.

Come se potesse esistere una spiritualità dehoniana che, precedendo la sua inserzione nei contesti concreti, dovesse piegarli a sé per attualizzarsi. Ma una spiritualità esiste solo come vissuto concreto, in un tempo e in un luogo, e quindi chiede di essere costruita e trasformata ogni volta di nuovo che essa si sporge su scenari dell’umano inediti. Non si tratta di tradurre un lascito spirituale in contesti culturali e storici altri rispetto a quelli che ne sono stati il grembo; quanto, piuttosto, di dargli carne e corpo, che prima non aveva, attraverso un lungo esercizio di apprendimento radicato nei contesti effettivi di vita.

Il Centro Studi Dehoniani di Roma, con il percorso seminariale biennale attivato da qualche tempo a cui partecipano borsisti provenienti da svariate regioni della Congregazione, potrebbe diventare uno snodo decisivo per dare forma e accompagnare queste attualizzazioni contestuali della spiritualità dehoniana. Se la spiritualità si invera solo nel momento in cui parla lingue e dialetti locali, quando diviene idioma di popolo e non di una casta separata da esso, allora il perno comune sul medesimo lascito spirituale si produrrà esattamente creando effetti di «estraneità» che non risultano immediatamente intellegibili se letti esclusivamente alla luce di quel comune originario.

Sensibili ai vissuti di popolo

Questo dice, in primo luogo, che non si tratta di riprodurre il sociale di Dehon nell’oggi, ma di comprendere collettivamente che lo spazio pubblico, quello abitato dal popolo e dalla cittadinanza (soprattutto quando questa non è riconosciuta), è costitutivo per la missione della Congregazione nel mondo e nella Chiesa. E anche lo spazio pubblico non è una invariabile, ma una realtà che si costituisce sul campo pratico delle culture e delle tradizioni – differendo, quindi, da contesto a contesto.

L’estraneità spirituale di cui si parlava sopra mostra qui tutta la sua fecondità comunitaria. Perché a essa spetta l’elaborazione dei criteri che permettono di individuare qual è lo spazio sociale in un determinato contesto, da un lato; e, dall’altro, di quelli che legano l’attuazione contestuale concreta della sensibilità sociale della spiritualità dehoniana, che sa abitare il senso di estraneità dovuto al suo costruirsi nei vissuti di popolo, all’idealità originaria consegnata a ogni realtà della Congregazione.

Per questa ragione si deve affermare un primato dei contesti (odierni, nella loro varietà) rispetto al contesto di fondazione. Sono proprio i contesti abitati, le lingue e i dialetti parlati, che forniscono i principi ermeneutici per approcciare p. Dehon e il suo lascito, non senza ambivalenze, di passione sociale della fede.

Una passione sociale fondante e costituiva, che potremmo cercare di delineare nei seguenti termini: attenzione pratica e sensibilità per un popolo concreto, che vive all’interno di un ben determinato quadro istituzionale e politico.

Ma, oggi come allora, bisogna guardare anche al macro-contesto, all’ordine internazionale, ai grandi sommovimenti che sono in atto a livello globale: nella consapevolezza che i destini dei popoli, e la nostra passione concreta per uno fra questi, dipendono in larga parte da esso. Non si deve fare come se queste macro-dinamiche non ci riguardassero, perché più grandi di noi, troppo lontane perché le pratiche quotidiane di sensibilità sociale dehoniana possano incidere su di esse. Il senso della dismisura non deve tradursi in una rassegnazione dell’intelligenza spirituale e della passione sociale. Esso deve piuttosto generare la disposizione a fare alleanze, a uscire dal ghetto delle emergenze per osare il faccia a faccia con le cause profonde dell’ingiustizia e della non equità che attanagliano il nostro mondo.

È questione di mentalità, innanzitutto – di non accontentarsi dell’orto di casa, nella consapevolezza che la sua fecondità o aridità dipende da venti che vengono da lontano. Questo chiede, per ciò che concerne la vita interna della Congregazione, di superare il dualismo fra governo generale e le varie entità/province – per trovare corpi intermedi, magari a livello continentale, che fungano da sismografi delle marco-dinamiche globali e del loro diverso impatto nei territori dell’umano. Vi sono già le commissioni teologiche che si radunano a questo livello, ma vanno rafforzate e organizzate per aprirle a un lavoro di rete al di fuori della Congregazione.

Nella crisi della democrazia

Il Centro Studi potrebbe svilupparsi anche nel senso di un osservatorio globale, dove contesti e macro-contesto vengono pensati e analizzati insieme – e sul versante sociale questa è un’esigenza che non può essere trascurata. Non può esserlo perché ci troviamo alle soglie della consunzione di quel grande esperimento democratico che l’Europa e l’Occidente sono stati per il mondo intero. La democrazia-farsa non è più solo ad appannaggio degli stati-canaglia, ma si afferma sempre di più anche nel paese che dell’istituto democratico si è fatto paladino globale.

Nella Chiesa, e anche in certe parti della Congregazione, torna ad affermarsi uno spirito anti-liberale, che digerisce ogni distorsione delle forme democratiche nell’illusione di un nuovo dominio ecclesiastico sulle società.

La democrazia che non fa il suo lavoro, che decostruisce lo stato costituzionale di diritto, ammicca sia al desiderio di rivalsa che abita un cattolicesimo non riconciliato con la modernità, sia all’intransigentismo che scorre nel lascito di p. Dehon. Certo, i regimi di governo e organizzazione della coesistenza umana sono contingenti e transeunti; ma prima di lasciarci alle spalle il porto della democrazia è bene chiedersi se la meta aspirata, senza conoscerla, sia quella di una giustizia più grande per tutti – e non solo per la parte egemone.

Se il nuovo ordinamento che stiamo progettando nel caos sia all’altezza di superare quell’«alienazione sociale» di cui parla papa Francesco nell’enciclica Dilexit nos. Se ci stiamo consegnando alle potenze mondane, o ci attiviamo nell’ordine delle cose penultime per preparare la venuta di un Regno che desidera rendere giustizia all’orfano e alla vedova, al povero e al carcerato.

Per non passare alla storia come una generazione che ha svenduto la sua sensibilità sociale all’ignavia dei forti.

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