Dinamiche pre-abusanti nella vita religiosa femminile

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Vorrei condividere alcune riflessioni sulla condizione della donna consacrata nella Chiesa alla luce delle dinamiche che favoriscono la consumazione di abusi di coscienza, abusi psicologici e fisici fino agli abusi sessuali. Tali dinamiche, che in questa riflessione definirò pre-abusanti, hanno caratterizzato la proposta di vita religiosa negli ultimi decenni sia dal punto di vista formativo che di vita quotidiana ordinaria strutturata sulla modalità relazionale gerarchica, da un lato, e sui tre voti religiosi, dall’altro.

Il discernimento pre-vocazionale

Il primo aspetto fondamentale da prendere in considerazione ai fini della comprensione delle dinamiche pre-abusanti è il retaggio legato all’identificazione della cosiddetta vocazione con l’ingresso in convento o in monastero, ove la fase di discernimento cosiddetto pre-vocazionale può attingere a fasce generazionali che rispondono in modo diverso all’esperienza dell’accompagnamento vocazionale.

È fondamentale tenere in considerazione che nelle diverse fasce generazionali in ricerca vocazionale si possono distinguere tre tipologie di donne:

  • giovani già maggiorenni, ma che non hanno ancora concluso gli studi di scuola superiore;
  • giovani maggiorenni che gestiscono la conclusione dei loro studi universitari in vista di una professione;
  • adulte con studi completati e professionalità già maturate attraverso esperienze lavorative.

Preso atto che l’età del discernimento per la vita religiosa femminile si è alzata, oggi si avvicinano a un’esperienza di discernimento vocazionale donne appena dopo il conseguimento del diploma di scuola superiore, che sovente si pongono la domanda se scegliere o meno di studiare all’università o, in alternativa, se entrare in convento o in monastero. Nonostante sia un caso sempre più raro, molto spesso tale situazione rappresenta per queste giovani donne un’esperienza di accompagnamento sororale che sostituisce la presenza della famiglia o di contesti amicali, che sono normalmente di supporto alla scelta di eventuali studi o di esperienze lavorative.

È dunque necessario essere consapevoli che la vicinanza di una donna consacrata, di una religiosa, o di un parroco, o comunque di una guida spirituale − che solitamente è un presbitero −, dopo gli studi di scuola superiore è una forma di aiuto e supporto che viene offerto in buona fede e con motivazioni sincere, ma spesso non rappresenta il miglior aiuto per superare il disorientamento circa la scelta di continuare gli studi universitari o di vivere esperienze lavorative. Questo passaggio esistenziale va considerato uno stato di vulnerabilità, non solo per l’età anagrafica ma per lo stato di disorientamento che la donna vive.

Nonostante la sincerità delle motivazioni che certamente spingono le promotrici vocazionali o le religiose impegnate nella pastorale giovanile o nelle attività di  animazione vocazionale, esse rischiano di essere centrate non tanto sulla formazione al discernimento della cosiddetta volontà di Dio (come la donna possa realizzare la propria vocazione nata dall’incontro personale con il Signore), bensì sull’arruolamento di coloro che si mostrano interessate ad approfondire la spiritualità, la preghiera e il rapporto con il Signore. Si rischia così di alimentare l’equivoco di far coincidere una esperienza di discernimento vocazionale con l’ingresso in un istituto religioso tramite periodi interni di discernimento.

Sentirsi in debito

Il primo equivoco che riguarda le donne più giovani è dunque quello di vivere un’intensa esperienza di fraternità e di sororità che le lega alla congregazione religiosa, che in qualche modo le ha orientate a entrare o le ha orientate a fare delle scelte in maniera molto vincolante, generando un sentimento di gratitudine e al contempo di debito verso la congregazione stessa. Debito che la donna ritiene di dover «pagare» sostanzialmente con l’ingresso nella congregazione, percepita come luogo sicuro e affidabile perché l’ha aiutata a scegliere gli studi universitari o a svolgere determinate attività lavorative dentro la congregazione o per conto della stessa.

La criticità di questo percorso è caratterizzata dal fatto che il legame della donna che entra nella congregazione religiosa è sostanzialmente dettato da una forma di gratitudine verso la congregazione che l’ha accompagnata più che da un approfondimento della propria relazione con il Signore e la criticità si mostra sostanzialmente attraverso la manifestazione da parte di queste giovani di donne di un senso di appartenenza molto corporativo, in quanto l’identificazione della congregazione religiosa con la risposta all’eventuale chiamata del Signore, le motiva ad idealizzare e ad idolatrare la l’Istituzione religiosa in quanto tale in modo corporativo e combattendo in maniera molto dubbia qualunque possibilità di revisione delle strutture e soprattutto delle dinamiche di potere che sono presenti all’interno della congregazione stessa, perché da quelle stesse dinamiche la giovane donna si è sentita aiutata in una fase di disorientamento.

Questa esperienza di gratitudine che fa nascere una sensazione di debito verso la congregazione religiosa pone l’accento più sul legame con la struttura e la congregazione religiosa rappresentata dalle donne che detenevano il potere in quel momento molto più del legame con il Signore attraverso la preghiera, la volontà di servire il Vangelo secondo la propria vocazione personale e convergente nelle relazioni quotidiane.

La vulnerabilità di queste donne si mostra sostanzialmente attraverso regressioni di carattere culturale in quanto in molti casi l’impossibilità di continuare a studiare le motiva a rimanere nell’alveo della congregazione come unico spazio e luogo di realizzazione, senza esperienze di possibile libertà e ampiezza per una crescita personale.

In questi casi la congregazione le rende fortemente dipendenti sia dal modello caricaturale dell’obbedienza, cioè da un’obbedienza alle superiore che detengono il potere (che sono le stesse che le hanno aiutate ad attraversare il disorientamento e le difficoltà di discernimento) e le rende particolarmente vulnerabili, cioè a rischio di entrare in dinamiche di dipendenza e sottomissione, in quanto la congregazione offre loro una possibilità di lavoro, di realizzazione, che non hanno avuto all’esterno durante il cosiddetto periodo di discernimento vocazionale.

Dipendenza

Tutto ciò può ben far comprendere che nel momento in cui le strutture interne alla congregazione mutano, cambiano gli assetti di governo e di servizio apostolico oppure le comunità, facilmente queste donne entrate in giovanissima età possono vivere forme di crisi psicologica che si mostrano innanzitutto in una fase di disorientamento già maturato dopo la professione perpetua vissuta nella speranza di potersi risolvere nello stesso modo in cui il disorientamento stato risolto prima dell’ingresso nella congregazione, cioè che sia la congregazione religiosa stessa a poter orientare sotto pretesto di obbedienza la donna in quanto tale.

Questa possibilità di risoluzione raramente avviene, proprio perché un malinteso concetto di obbedienza ha deresponsabilizzato la giovane donna stessa dal discernere personalmente il proprio maggior bene e pertanto sarà praticamente incapace di un discernimento sulle proprie possibilità di vivere nella congregazione nell’ambito di relazioni sane che permettano di vivere il Vangelo al di fuori di dinamiche di sottomissione e dipendenza.

Raramente tali donne abbandonano la congregazione in quanto in esse prevale un senso di appartenenza, seppur nell’ambito di una grande sofferenza generata da relazioni non più sane o vissute in comunità invecchiate diventate disfunzionali a causa dello scontro generazionale. Raramente esse hanno gli strumenti per il discernimento personale e soprattutto le possibilità di sperimentare percorsi di discernimento all’interno di altre congregazioni religiose e di maturare competenze professionali che in caso di uscita dall’Istituto consentirebbero di svolgere un lavoro che permetta loro di essere autonome e indipendenti sia dal punto di vista relazionale che economico.

Pertanto è bene essere consapevoli che quando si affacciano al discernimento vocazionale donne di fronte alla opportunità di intraprendere studi universitari o alla ricerca di un primo lavoro, è una grave responsabilità morale orientare anche solo indirettamente tali giovani all’ingresso nella vita religiosa come possibile soluzione al loro stato di disorientamento in assenza di un supporto familiare o amicale.

Scegliere dopo l’Università

Altra casistica divenuta oggi molto più frequente riguarda donne che si affacciano al discernimento vocazionale dopo la conclusione degli studi universitari, ma senza significative esperienze lavorative e professionali. Anche la conclusione degli studi universitari è un passaggio all’età adulta che molto spesso, vissuto oltre i trent’anni d’età, genera uno stato di disorientamento e un sincero desiderio di ricerca della propria strada esistenziale.

Il discernimento vocazionale con queste giovani donne adulte si mostra certamente più articolato e complesso perché si tratta di donne intellettualmente molto più strutturate, ma che dal punto di vista affettivo tendono a cercare nell’esperienza di vita religiosa gli stessi modelli che sono stati vissuti positivamente o negativamente all’interno delle proprie famiglie, dei propri contesti amicali e dei propri contesti scolastico-formativi. Da questo consegue che l’equivoco di rappresentare l’ingresso nella vita religiosa come la risposta alla vocazione del Signore è certamente meno radicato nelle giovani donne laureate, ma che allo stesso tempo avendo raggiunto anche un’età che favorisce il desiderio di fare un bilancio della propria vita, della propria femminilità e delle proprie relazioni, tali donne cercano una stato di vita che le emancipi dagli stereotipi della donna realizzata solo in quanto moglie e madre relegata all’ambito domestico e dunque si affacciano alla vita consacrata proprio come possibilità di emanciparsi da uno stereotipo sociale e culturale che in alcuni contesti italiani è ancora molto forte.

Pertanto è fondamentale cogliere se nelle donne laureate vi è questa ricerca di emancipazione e desiderio di vivere uno stato di vita con possibilità relazionale più ampia rispetto a quelle che le stesse riterrebbero di poter vivere all’interno del matrimonio e della propria famiglia.

Altro aspetto delicato del discernimento con donne che hanno completato l’istruzione universitaria è che raramente le congregazioni religiose dispongono di formatrici e promotrici vocazionali in grado di un confronto sereno e alla pari con le candidate, perché è probabile che esse siano dotate di esperienze relazionali, formative e intellettuali superiori alle religiose che le accolgono per l’accompagnamento. Pertanto, la dinamica pre-abusante in fase pre-vocazionale è quella di sfidare le candidate a vivere una forma di obbedienza cieca, accettando per amore di Dio di lasciare la ricchezza della propria esperienza relazionale e formativa per regredire e adattarsi alla congregazione, la quale mediamente avrà un gap formativo che peserà sulla candidata.

Prospettare alla persona di lasciare gli studi universitari o di interrompere le esperienze lavorative successive alla laurea, rappresenta una dinamica pre-abusante molto efficace, in quanto ha la potenzialità di gettare in una forma di regressione psicologica molto grave. Questa non viene immediatamente percepita, perché la candidata è accolta in uno spazio relazionale intenso, in una dinamica affettiva definita di «love bombing», cioè essa vive una compensazione della regressione tramite un’accoglienza affettiva tale da farle credere che il prezzo della regressione intellettuale e culturale sarà compensato da una sororità affettiva e amorevole che le consentirà di vivere serenamente dentro la congregazione nonostante tutto.

Uso (solo) interno delle competenze

La congregazione, a sua volta, presenta alla candidata la possibilità solo eventuale di recuperare in futuro le esperienze formative del passato. Purtroppo, questo passaggio illusorio viene colto solo dopo alcuni anni, dopo la professione temporanea oppure dopo la professione perpetua, dopo quei passaggi formativi nei quali la persona ha maturato il desiderio e la speranza di riprendere gli studi o di esprimere le proprie competenze e professionalità a favore della congregazione.

La dinamica pre-abusante sta qui nel riservare le competenze possedute all’ambito della sola congregazione, senza possibilità che tali competenze e professionalità possano essere espresse al di fuori. Questa condizione determina nella consacrata una dipendenza in quanto essa non può esprimersi se non dentro meccanismi di gerarchizzazione e di dipendenza che non le permettono un’effettiva crescita personale.

L’esclusività del servizio per la struttura religiosa o ecclesiastica determina uno stato di notevole sofferenza in queste donne, le quali sono state illuse di poter continuare la formazione intellettuale e professionale all’interno della congregazione, oppure di poter investire tali competenze attraverso modalità di espressione che permettessero loro di servire il Vangelo liberamente. Ne consegue che le consacrate entrano in circuiti di espressività dei propri doni che non permettono loro − se non con grande difficoltà e in caso di uscita dall’Istituto − di valorizzare la propria professionalità in contesti diversi da quelli della congregazione o da contesti ecclesiastici dipendenti dal clero.

Lo stato di vulnerabilità di tali donne si evidenzia nel momento in cui le modalità di espressione delle proprie competenze diventano forme di sfruttamento, di sovraccarico di lavoro, ovvero condizioni che generano frustrazione, stanchezza, sovraffaticamento che possono sfociare nella patologia del burnout. Raramente tale patologia sofferta dalla donna consacrata viene diagnosticata e compresa dalla congregazione: la candidata sarà facilmente accusata di non vivere a servizio del Signore e della Chiesa, di non vivere al servizio della congregazione e sentirà la sua richiesta di riposo e di tempi adeguati per maturare una propria crescita intellettuale e professionale giudicata come ricerca egoistica di se stessa.

In queste condizioni alcune donne, dopo circa 10-15 anni di vita religiosa, non riescono a rappresentare o a immaginare se stesse al di fuori di quelle sole possibilità di realizzazione, perché la congregazione le ha costrette a operare solo all’interno delle proprie opere o delle proprie forme di apostolato e dunque non percepiranno di avere forze per trovare spazi di vitalità evangelica se non dentro quelli clericalmente controllati o permessi dalla congregazione.

Nel lungo periodo questo genere di esperienza porta a un graduale spegnimento della vita interiore, a una tendenza all’isolamento all’interno delle comunità con difficoltà a rappresentare le proprie problematiche, i propri disagi alle proprie superiore e alle proprie consorelle. Un isolamento che si fa sempre più accentuato man mano che aumentano i carichi di lavoro e che a causa dell’assenza di tempi di riposo e di tempi di cura della vita interiore portano a un inaridimento e a un automatismo di vita quotidiana che rende tali donne estremamente vulnerabili sotto il profilo psicologico. In questi casi, queste donne adulte già professe perpetue possono maturare periodi di lungo isolamento, non visibile alle consorelle e alle superiore, trasformando il proprio disagio in una periferia esistenziale, creando una sorta di doppio binario esistenziale.

Regressione fomativa

Un altro livello di vulnerabilità che caratterizza le donne consacrate è quello determinato dalla mancanza di aggiornamento e formazione dopo la professione perpetua. Nonostante nell’ambito delle congregazioni di vita apostolica vi sia certamente un’offerta formativa più ampia, anche ai fini dell’eventuale insegnamento all’interno delle opere delle congregazioni o a fini di apostolato, successivamente alla professione perpetua non sono presenti periodi formativi ed esperienze formative di aggiornamento teologico ed esegetico.

Ciò comporta fin dagli anni della prima formazione a vivere una sorta di microcosmo in cui la spiritualità del fondatore o della fondatrice e l’adattamento dei propri linguaggi religiosi alla quotidianità abitua ad una interpretazione della parola di Dio e ad un linguaggio quotidiano del proprio ruolo e della propria presenza di donne consacrate con semplificazioni che rendono caricaturale la coscientizzazione dei voti religiosi.

Tra i tanti esempi e sintomi di regressione formativa basti pensare alle drammatizzazioni di performance domestiche tra consorelle (chi cucina meglio, chi pulisce meglio ecc.), oppure un’esagerata attenzione all’abito religioso o alle modalità di vestire anche senza abito, affinché «si veda» che la donna consacrata è una suora. Oppure ancora l’agonismo tra consorelle nelle attività di apostolato, cercando di mantenere esclusività nelle forme di servizio e di accompagnamento spirituale, soprattutto con i giovani.

Infatti, nella fase successiva alla professione perpetua in cui termina un accompagnamento più stretto da parte di una o più formatrici o di un’equipe formativa, è altamente probabile che ci sia una sorta di «arresto formativo», in quanto la congregazione non permette esperienze formative significative sotto il pretesto di risparmio (povertà).

Le congregazioni, infatti, raramente permettono alle religiose di professione perpetua di svolgere tempi formativi significativi all’esterno o esercizi spirituali o forme di accompagnamento psicologico e spirituale significativamente in grado di permettere un aggiornamento, soprattutto sotto pretesto di mantenere un ruolo sacralizzato, che distingua nettamente lo stato di vita delle religiose rispetto a tutti gli altri fedeli e alle altre fedeli.

Tipizzazione esclusiva

La maturazione di spazi esclusivi o escludenti, linguaggi e modalità di vestire e forme esteriori comunque in grado di comunicare la sacralizzazione della persona in quanto tale motiva queste donne a considerare la propria congregazione religiosa come una sorta di comfort zone, cioè uno spazio in cui lo stesso linguaggio, la stessa modalità di pensare, di parlare, di esprimere la propria spiritualità e la propria capacità relazionale, fa sentire di essere parte di un corpo religioso, ma allo stesso tempo diventa impenetrabile ed impermeabile ad aggiornamenti di carattere umano, filosofico, teologico e biblico, soprattutto riguardo alla condizione della donna nella società e nella Chiesa.

Le esperienze di appartenenza alle congregazioni, soprattutto quelle più radicate a livello di chiese locali, maturano una forte convinzione che la propria presenza nella chiesa venga riconosciuta tanto più si mostrano forme di tipizzazione del proprio linguaggio, del proprio modo di vestire, del proprio modo di relazionarsi, le quali segnino in maniera evidente una discontinuità rispetto al modo di vivere degli altri credenti.

Se questo atteggiamento si consolida e la congregazione soffre l’invecchiamento dei propri membri è altamente probabile che non vi sia una capacità di intercambiare le persone al governo e si maturino forme di concentrazione del potere in capo sempre alle stesse religiose. Tale concentrazione di potere è l’esito della impossibilità pratica di celebrare assemblee e capitoli elettivi validi, in quanto essi risulteranno meramente ripetitivi di elezioni in capo a una o più religiose che grazie a alle forme di dipendenza sopradescritte non hanno permesso alle successive generazioni di vivere una vita adulta all’interno della congregazione, a motivo di forme di dipendenza di coscienza, psicologica ed affettiva.

Questa condizione determina inevitabilmente uno stato di vulnerabilità in molte religiose, le quali a fronte di un eventuale disagio maturato riguardo alle diverse aspirazioni che hanno caratterizzato le diverse stagioni della propria vita vengono inevitabilmente non ascoltate o tacciate di non essere al servizio della Chiesa e della congregazione.

Nonostante la più parte delle religiose preferisca fare una scelta esistenziale sostanzialmente autodistruttiva, ossia di rimanere all’interno di relazioni e comunità disfunzionali della congregazione religiosa, esse iniziano a vivere una sorta di percorso di auto sabotaggio, preferendo subire forme di limitazione della propria libertà di coscienza, della propria salute psicologica e fisica per poter rimanere all’interno di un contesto che gradualmente sarà sempre meno in grado di generare relazioni sane e costruttive ed in grado di far crescere la donna in quanto tale nella sua relazione con Dio a servizio del Vangelo.

Queste scelte sono certamente drammatiche e spesso dettate da discernimenti errati sotto apparenza di vita ed aiuto evangelico, dettati da motivazioni illusorie secondo cui rimanere all’interno di relazioni comunitarie e personali di carattere tossico sia espressione di un dono di sé in termini di sacrificio e che dunque il sacrificio di sé possa salvare quel percorso autodistruttivo che la congregazione ha intrapreso decenni prima.

Di fronte al declino

L’illusione più pericolosa è la convinzione che il sacrificio di una sola persona possa magicamente determinare un’inversione di tendenza all’interno dell’Istituto religioso. Essa conduce spesso a forme di depressione, ansia e attacchi di panico fino a patologie ancora più gravi, quando ci si trova davanti al declino della propria congregazione non più capace di mutare i propri meccanismi interni.

Questa forma di sacrificio di sé, del tutto illusorio, non tiene conto delle dinamiche relazionali che sono maturate all’interno della congregazione in maniera complessa, sia nell’ambito dei ruoli di governo − che si sono cristallizzati senza alternanze −, sia alla luce delle proposte formative − che non hanno permesso all’esperienza di vita religiosa di divenire un’esperienza di vita adulta a servizio del Vangelo.

È auspicabile che le congregazioni religiose possano maturare delle modalità di valorizzazione delle proprie candidate che non mettano al centro la struttura, il mantenimento delle opere, la reputazione delle istituzioni e la dipendenza dall’autorità ecclesiastica, ma che favoriscano un’esperienza di sororità tra donne che non vivono dipendenti da una struttura, ma che maturano una capacità di vita adulta, di autonomia di coscienza, psicologica, fisica ed economica, la quale permetta loro di vivere in libertà le relazioni con altre donne al servizio del Vangelo.


Su tematiche affini alle dinamiche abusanti e pre-abusanti nella vita consacrata si consiglia la lettura dei seguenti articoli:

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13 Commenti

  1. Elisabetta 27 settembre 2024
  2. Antonio 22 agosto 2024
  3. Fabio Cittadini 11 agosto 2024
  4. Adelmo Li Cauzi 11 agosto 2024
    • Antonio 22 agosto 2024
  5. Barbara 9 agosto 2024
  6. Valentina 9 agosto 2024
  7. Federica Spinozzi 9 agosto 2024
  8. Giuseppe 9 agosto 2024
    • Graziana Grappoli 9 agosto 2024
      • Roberto Beretta 9 agosto 2024
        • Antonio 22 agosto 2024
  9. Graziana Grappoli 8 agosto 2024

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