El Salvador 16 novembre (1989-2019)

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Trent’anni fa, nel Salvador, sei gesuiti e due donne furono uccisi da un commando speciale dell’esercito perché il governo li riteneva i capi che manovravano le insurrezioni di sinistra. Tra le vittime c’era Ignacio Ellacuría, noto teologo della liberazione e discepolo di Karl Rahner. L’autore di questo contributo (pubblicato sui sito della Provincia tedesca), Martin Maier sj, incaricato dell’ordine dei gesuiti per gli affari europei a Bruxelles, era nelle vicinanze al momento dell’assassinio e continua ad avere un rapporto di lunga data con El Salvador.

Ci sono dei crimini che hanno una dimensione storica. Questo è vero sotto diversi aspetti per l’assassinio dei sei gesuiti e delle due donne avvenuto il 16 novembre 1989 a San Salvador. Alcuni giorni prima c’era stato il crollo del muro di Berlino – l’inizio della fine della guerra fredda. Ma, nel Salvador, la guerra civile scoppiata nel 1990 divenne di nuovo molto calda. Era anche una guerra per procura nel conflitto Est-Ovest. La guerriglia di sinistra scatenò un’offensiva militare sul piano nazionale e occupò un terzo della capitale San Salvador. L’esercito si sentì con le spalle al muro e bombardò in maniera indiscriminata interi quartieri della città.

La sera del 15 novembre si riunì l’intero gruppo dirigente dell’esercito e decise di eliminare i presunti capi degli insorti. Un commando speciale fu inviato all’Università Centroamericana dei gesuiti “José Simeón Cañas” (UCA).

I soldati trascinarono fuori dalla loro abitazione i padri, li costrinsero a sdraiarsi faccia a terra sull’erba e li uccisero sparando loro da vicino. Oltre a Ignacio Ellacuría, rettore dell’Università, c’erano Segundo Montes, Ignacio Martín-Baró, Amando López, Juan Ramón Moreno e Joaquín López y López. Dovettero essere uccise anche la cuoca Elba Ramos e sua figlia Celina, perché era stato ordinato ai soldati di non lasciare alcun testimone del massacro.

Anniversario gesuiti El Salvador

La massa cerebrale fuoriuscita dai crani divenne un simbolo macabro: qui doveva essere ucciso il fantasma. Una volta di più gli esecutori e i loro mandanti credevano di sbarazzarsi delle persone e delle loro odiose idee.

Perché i sei gesuiti e le due donne furono uccisi? La risposta più semplice si può leggere sulla lapide nella cappella dell’università. In essa è descritta la missione più importante dell’ordine dei gesuiti nel nostro tempo, come fu formulata nella 32ª Congregazione generale del 1975. «Cosa significa oggi essere gesuita, compagno di Gesù? Impegnarsi sotto la croce nella lotta decisiva del nostro tempo: nella lotta per la fede che implica la lotta per la giustizia».

A partire da questo proposito, i gesuiti volevano rispondere all’ingiustizia nel mondo quale sfida più urgente del tempo presente. L’assemblea dell’ordine aveva anche predetto profeticamente: «Noi non lavoreremo per la giustizia senza pagare un prezzo». Questa frase è anch’essa incisa sulla lapide sepolcrale.

Come professori universitari questi gesuiti vollero mettersi a servizio dei poveri. Ignacio Ellacuría come rettore dell’Università intervenne sempre più nei dibattiti pubblici, chiese maggiore giustizia sociale e rispetto dei diritti umani. Segundo Montes come sociologo e direttore dell’Istituto dei diritti umani dell’università si occupava in particolare della sorte dei profughi della guerra civile. Ignacio Martín-Baró affrontava come psicologo sociale le conseguenze della guerra sui bambini. Amando López e Juan Ramón Moreno insegnavano teologia in linea con la teologia della liberazione e intrattenevano un legame intenso con le comunità ecclesiali di base. Joaquín López y López era uno dei fondatori dell’università e, al momento del suo assassinio, era direttore dell’opera sociale scolastica “Fe y Alegría”.

Del Salvador nei nostri media si parla di solito soltanto quando si verificano catastrofi naturali o quando accadono fatti criminali straordinari come, per esempio, l’uccisone dei gesuiti e delle due donne. Ma qual è oggi la situazione nel Salvador?

A distanza di 27 anni dalla firma del trattato di pace, i problemi sono ancora lontani da una soluzione. Il Paese si trova ancora in un processo di transizione difficile e fragile dalla guerra civile a una vera pace, da decenni di dittature militari alla democrazia, da polarizzazioni sociali estreme a una riconciliazione nazionale. L’opportunità di rivedere criticamente i peggiori crimini della guerra civile, come richiesto da trattati di pace, fu sprecata con l’affrettata amnistia del 1993.

Nel Salvador la giustizia e la riparazione del male perpetrato continuano ad essere differite: anche per quanto riguarda l’assassinio dei sei gesuiti e delle due anni di trenta anni fa. Ma il popolo salvadoregno ha i suoi modi di ricordare e di riparare. Il reinsediamento dei profughi dopo la guerra civile fu intitolato ai gesuiti assassinati. Le loro foto sono visibili in molte chiese e baracche.

Sul luogo dove furono assassinati, fioriscono oggi le rose. La loro tomba nella chiesa dell’università divenne, come il roseto, un luogo di pellegrinaggio. Ogni anno, nella notte tra il 15 e 16 novembre, si riuniscono migliaia di persone nel Campus universitario. Cantano, pregano e celebrano i loro martiri. Ciò avverrà anche nel trentesimo anniversario della loro uccisione.

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