Concludiamo col tema della benedizione il nostro itinerario attraverso il volume curato da Francesco Strazzari, La giornata di un monaco, EDB, Bologna 2016 (dello stesso volume abbiamo già pubblicato: la vocazione; la preghiera; l’obbedienza; il silenzio; l’ospitalità).
Nella tradizione benedettina, seguendo san Benedetto – il suo nome Benedictus lo indica – il fondatore è il benedetto o l’uomo della benedizione. Un nome che è anche un programma per tutti coloro, uomini e donne, che seguono la Regola di san Benedetto. Il monaco è così chiamato a divenire un essere di benedizione.
A più riprese, san Benedetto mette in guardia i monaci dal flagello del mormorio: «Prima di tutto, è l’avvertimento che diamo: che i monaci si astengano assolutamente dal mormorare».
– C’è una motivazione profonda?
Sì, perché colui che agisce mormorando è di ostacolo alla grande corrente di benevolenza che Dio ha lanciato nella creazione e che l’uomo – ognuno di noi – ha la responsabilità di sviluppare e di diffondere. Mormorare è dire no alla vita, è rifiutare questa vita che Dio ci dà, anche se essa spesso ci sorprende. È, alla fine, fare schermo all’azione di Dio, non solamente in sé ma anche negli altri.
Il mormorare ha la sua sorgente nell’oblio. Troppo spesso noi dimentichiamo il senso della nostra esistenza, l’intenzione creatrice di Dio e allora cadiamo nell’accecamento e nella sordità. Tutte le prospettive diventano sfocate, indeterminate. È così che nel prologo della Regola san Benedetto vuole strapparci dal sonno, dall’amnesia: «Destiamoci dunque infine: l’ora è venuta di destarci dal sonno! Cingiamo i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni». San Benedetto indica l’antidoto al mormorare: la benedizione! «Che i fratelli benedicano Dio invece di mormorare».
– Si può dire che il benedire sia una sorta di vocazione?
San Pietro, nella sua prima lettera dice: «Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1Pt 3,9). Ereditare la benedizione è una formula molto bella e assai ricca perché significa: «Accogliere la vita di Dio». Ricevere la vita, non come qualcosa di dovuto, ma come un dono per trasmettere questo dono agli altri. È evidente che quando riceviamo la benedizione non è per tenerla per noi, divenendone proprietari, ma per comunicarla, diffonderla. Dio ha bisogno di noi per questa trasmissione. Dio, che è per eccellenza l’Essere di benedizione vuole che, a nostra volta, diventiamo esseri di benedizione per diffondere attorno a noi la benedizione e attribuirla al suo autore.
Ecco la nostra vocazione: benedire Dio su questa terra perché la nostra terra non sia una terra maledetta, ma benedetta. Poiché la benedizione di Dio è vita per noi e ci introduce in questo immenso movimento di creazione, noi dobbiamo – in risposta – riconoscere questa benedizione e vivere benedicendo. È il modo migliore per poter riconoscere i doni di Dio e ringraziarlo. Ricevo da Dio la sua grazia e gliela rendo. Allora faccio realmente eucaristia: «Ti offriamo, Signore, i doni che ci hai dato e ti rendiamo grazie».
– C’è un rapporto stretto e profondo tra la benedizione e la vita?
Sì. Benedire è dire sì alla vita. Noi siamo immagine e somiglianza di Dio, nel quale non c’è posto per la maledizione. È diventare simile all’Amato, il benedetto di Dio, di cui la Seconda Lettera ai Corinti dice: «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui vi fu il “sì”. Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono “sì”» (1,19-20).
Quando Gesù si congeda dai suoi discepoli, il giorno dell’Ascensione, l’evangelista Luca dice che fu trasportato in cielo benedicendo: «Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24,50-53).
Gesù ci lascia la sua benedizione, spartisce la sua eredità, ed è per questo che, dopo la doppia benedizione da parte di Gesù, Luca termina il suo Vangelo con le parole: «Essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio». Il benedetto di Dio, Gesù, non ci lascia soli, ci lascia la sua benedizione, cioè il suo Spirito Santo: «La caparra della nostra eredità», come dice san Paolo, affinché siamo tutti «figli di benedizione». Questo Spirito ci insegna giorno dopo giorno a diventare uomini e donne di benedizione, a lasciar scorrere dai nostri cuori di pietra la benevolenza che ama la vita e che riconcilia gli esseri tra di loro».
– Si può dire che la benedizione è un’arte di vivere, un modo di amare?
Certamente sì. La benedizione ci mette in uno stato di benevolenza. Benevolenza nei confronti di noi stessi, come anche benevolenza nei confronti degli altri e di tutto. La Bibbia, e particolarmente i Salmi, è piena di questi inviti alla benedizione: «Noi, i viventi, benediciamo il Signore, ora e nei secoli dei secoli» (Salmo 113); «Voi tutti, benedite il Signore, voi suoi servitori che vegliate nella casa del Signore» (Salmo 133); «Rendete grazie al Signore, egli è buono, eterno è il suo amore» (Salmi 102, 103, 104, 105, 106, 117, 135).
Tutti siamo capaci di dire che Dio è buono, ma credere che è al centro delle nostre vite come una potenza di amore, di benedizione e di benevolenza, è molto più difficile. C’è spesso un abisso tra quello che affermiamo e quello che viviamo. È forse in questo campo che sentiamo maggiormente le nostre difficoltà, per non dire la nostra incapacità a convertirci, a vivere con un cuore nuovo. Il pendio è così sdrucciolevole per mormorii, giudizi, facile catalogazione…
In effetti, se noi manchiamo di bontà e di misericordia nei confronti degli altri, è perché manchiamo anche nei nostri confronti. Bisogna avere fatto l’esperienza della fiducia, dell’amore per poter viverla e trasmetterla. Bisogna credere che l’amore è al centro stesso delle nostre vite per trasmetterlo agli altri. Colui che si crede rifiutato sarà incapace di benedire gli altri. La violenza, che certi portano in sé e che fanno emergere, spesso senza rendersene conto, non è che il segno di una ferita, la ferita di coloro che non sono stati amati o che sono stati ingannati. Al contrario, la scoperta di uno sguardo che accoglie e che ama può cambiare la vita di una persona.
La benevolenza è veramente una benedizione per coloro che ci attorniano, perché fa circolare la vita tra noi, reiventa la strada di ognuno, dandogli la possibilità di riprendere il suo cammino.
– Nella giornata di un monaco è molto importante l’obbedienza, che i sacri testi chiamano filiale. È un discorso un po’ strano al giorno d’oggi.
Vediamo di capirci. Rendere grazie per tutto o per tutti, dire “sì” a tutto ciò di cui è fatta la nostra esistenza di ogni giorno, ci pone nella lode. Una lode che non è un accecamento né una selezione: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28).
La fiducia non ci fa mai fare economia dell’intelligenza e del giudizio. Il discernimento è indispensabile, ma una volta realizzato, resta l’obbedienza. Nel capitolo 68 della Regola Sul caso di un fratello a cui siano imposte cose impossibili, san Benedetto è esplicito: «Nel caso che a un fratello vengano imposte cose difficili o impossibili, egli tuttavia riceva il comando datogli con totale mansuetudine e sottomissione. Se poi vedrà che il peso di quel carico eccede assolutamente la misura delle sue forze, faccia presenti con atteggiamento paziente e in modo opportuno al superiore i motivi della sua impossibilità, senza mostrare superbia né ostinarsi o contraddire. Ma se dopo la sua esposizione il superiore manterrà fermo il suo ordine, l’inferiore sia certo che così è bene per lui, e per amore obbedisca confidando nell’aiuto di Dio».
Qui, credo, si colloca la vera obbedienza, obbedienza della fede che supera le nostre logiche. Noi rifiutiamo di andare oltre perché vediamo la situazione secondo i nostri criteri e la nostra logica troppo umana: «No, non posso! È impossibile!». L’obbedienza ci permette di superare le nostre resistenze e le nostre vedute troppo corte per entrare in un cammino di fede. Lo Spirito Santo può allora fare molto di più di quel che immaginiamo. Quando si prende sul serio la parola del Signore: «Cercate prima il regno di Dio e il resto vi sarà dato in sovrappiù» – e quindi quando si evita di farsi troppe preoccupazioni – le cose si combinano spesso molto meglio di come si poteva immaginare all’inizio. Santa Teresa di Lisieux, che cercava di compiere tutto con amore sotto lo sguardo di Dio, diceva: «Avevo l’impressione che gli angeli facessero il lavoro al posto mio!».
– E in caso di fallimento?
È vero che la fede non ci preserva dal fallimento, dalla sofferenza, dalla morte: li troviamo al centro stesso della vita di Cristo. Lui pure, il Figlio del Padre, completamente obbediente alla volontà del Padre. Camminare sulle sue tracce non è mai un cammino facile che ci libererebbe dalla lotta. Spesso è il contrario. I nostri cammini per andare a Dio sono sovente sinuosi con errori, cadute, delusioni. Ci è quindi necessario l’umile realismo che sa che il fallimento è sempre possibile e che il Risorto porta ancora adesso davanti al Padre le stigmate della passione. Seguire il cammino della santità – che non ha niente a che vedere con la perfezione – non è camminare senza cadute, ma piuttosto, dopo ogni caduta, accettare di rialzarsi e di ripartire.
È in questo contesto, credo, che si può sviluppare e dispiegare in noi la vera forza di rendere grazie e di benedire. Se il fratello al mio fianco ha un difetto a livello psichico, è evidente che non posso negare questo handicap, ma questo non deve per niente togliere la benevolenza. Ciò mi obbliga, al contrario, ad avere più pazienza, dolcezza, benevolenza. Ciò che importa, è credere che la germinazione è più importante della riuscita, che la crescita esige un lungo tempo di maturazione.
San Bernardo scrive: «Ciò che ci impedisce maggiormente di avanzare nella vita spirituale è di non sapere rendere grazie». Entriamo quindi in questo atteggiamento di benedizione per lasciare maturare in noi il frutto dello Spirito Santo che, secondo san Paolo, è «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23).