Riprendiamo dal sito delle religiose e religiosi francesi il messaggio che la presidente, suor Véronique Margron, ha inviato a tutti il 3 maggio. Un invito a comprendere il tempo della pandemia e il dopo.
«Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti, quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,27-29).
Care sorelle, cari fratelli, cari padri, cari amici,
con queste domande che mi macerano dentro vorrei trovare un momento per voi mentre si annuncia un secondo tempo incerto, precario, se non pericoloso rispetto a quello che viviamo, indicato con “confinamento”. Dal cuore affaticato e inquieto dei giorni presenti per i nostri, per la tenuta delle nostre case, per quel tanto che è possibile garantire e sostenere il nostro futuro, che cosa abbiamo o non abbiamo capito? Saremo diversi?
L’Ospite interiore
Silenzio e gratitudine. Siamo anzitutto entrati nel silenzio ormai da sei settimane. Quello delle nostre chiese e cappelle, delle nostre celebrazioni, come anche dei nostri cuori e delle nostre anime sconquassate, perfino della nostra ragione rimasta priva di riferimenti.
Tempo di Quaresima, poi nella grande Settimana abbiamo cercato di accompagnare passo dopo passo il Figlio dell’uomo fino alla tomba.
Tempo della Settimana radiosa, come la chiamano i nostri fratelli ortodossi, settimana di trasfigurazione del mondo nella certezza che la morte è stata vinta e il mondo salvato.
In quelle ore così care alla nostra fede, così centrali per noi nel nostro desiderio di votare a lui la nostra vita, la nostra ricerca e tutto il nostro essere, abbiamo dovuto ritornare anzitutto verso il nostro ospite interiore. Con una forza che non è, purtroppo, di tutti i cristiani: e poterlo fare insieme, nella condivisione dell’umanità e della fede. In comunità molto spesso assai inventive in ordine alla liturgia e ai rapporti umani in queste inedite circostanze.
Nel vuoto del silenzio, nell’impossibilità di accogliere e di celebrare per e con gli altri, era ed è in azione un’attività straripante, fedele tra i fedeli. Donne e uomini indaffarati a servire il mondo perché resti umano. Dedicati alla cura in tutte le maniere, negli ospedali, nelle case di riposo come nelle panetterie, dai più noti ai più umili, tutti ugualmente preziosi… che giorno e notte hanno vegliato, si sono presi cura, spesso hanno salvato molte e molte vite. Fra cui persone a noi vicine, amici, conoscenti, fratelli e sorelle. Sono all’opera dall’inizio della tempesta. Per loro non è il tempo della domanda «perché una simile catastrofe?», ma di combatterla a mani nude e corpo perso.
Combattere è in fondo la sola maniera di rispondere alla questione del male. «Il male è ciò contro cui lottiamo; in certo senso non abbiamo altre relazione con lui che quella di essere contro».[1] Come scriveva bene Christiane Rancé su La Croix,[2] «innumerevoli Marta si affannano attorno a noi» perché possiamo ancora invitare Gesù nelle nostre case e nelle nostre vite e acquietarsi per qualche istante. Tutte queste e questi agiscono «al di sopra di sé» per la vita di tutti. Domani, se usciamo vivi da questa immensa prova personale e collettiva, non dovremo dimenticarli e a loro ripetere ancora la nostra gratitudine.
Colui che tu ami
Forse in questi mesi abbiamo compreso di nuovo una vera Presenza, quella che si esprime nella cura degli altri, in carne e ossa, nella nostra presenza gli uni agli altri, orante e intercedente, presenza attiva e amicale, inquieta per l’altro e per tutti. Presentare a Gesù il mondo che «è malato» (Gv 11,3), «colui che tu ami». La spogliazione richiesta della crisi sanitaria, umana, economica, ecologica attende una nostra risposta sobria e vibrante, intima, totale in favore dei corpi più fragili e preziosi che è l’umanità di ciascuno e di tutti. «Il malato chiede dell’aria e dell’aiuto a nome proprio e in nome dell’intero pianeta».[3]
In queste settimane molti fra noi hanno tremato e pianto per gli amici, sorelle e fratelli morti o in situazioni molto critiche, raccogliendo la nostra esistenza nel suo dato elementare, come alla nuda fede. Domani, quando forse torneremo a girare, accogliere, aprire le nostre comunità, le cappelle e le chiese, non si tratterà di dire che riprendiamo la vita dove l’abbiamo lasciata, ma piuttosto di interiorizzare lo scombussolamento provocato da questo tempo, di esserne cambiati. Nella fede come nei costumi ci lasceremo visitare, spiazzare, interrogare da quello che è passato, da un evento che ha turbato ogni cosa?
Il debito verso i morti
La memoria e la fraternità. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,25-27). Lo sappiamo, per noi forse e per molti altri, la morte che ha bussato alle porte delle nostre comunità, famiglie e amici, delle nostre città e campagne, lascia uno stato di shock, di straniamento. Perché per molti non è stato possibile visitare, accompagnare e essere presenti, insieme, attorno al cadavere, per circondarlo, ma soprattutto per accompagnarci gli uni gli altri, per consolarci. Tutto si è risolto in un minuscolo gruppo e rapidamente. Come esprimere il debito a coloro che partono? Come credere alla loro morte quando nessuna affezione ce l’attesta?
Ci sarà molto da chiarire sulla necessità sanitaria – o meno – che ha obbligato a tali disumanità, a tali crudeltà. Discuteremo molto – e sarà necessario – più avanti fra Antigone e Creonte. È possibile un compromesso quando la «strettoia del punto di vista», la maniera in cui ciascuno dei protagonisti sprofonda nel suo ruolo senza poterne uscire, li rende per sempre inconciliabili?[4]
Ma la questione è anzitutto: come potremo sostenere l’elaborazione del lutto della perdita dal momento che è stato impossibile, o quasi, prenderci cura dei morti? Ciò che l’uomo ha fatto fin dalla notte dei tempi e ben prima di Sofocle (5 secolo a.C.). Ragione di inquietudine sicuramente per i cristiani che non hanno potuto celebrare il loro defunto affidandolo al Dio di ogni pietà, ma anche per tutti gli altri perché, davanti al dolore, alla perdita, alla mescolanza dei sentimenti, al senso di colpa di non aver fatto quello che avremmo voluto fare, siamo tutti uguali, tutti indifesi. Come la nostra amicizia, le nostre liturgie, i salmi, la lettura delle Scritture, potranno riannodare il filo d’umanità che ci tiene insieme, viventi e defunti? Quale impegno, quale fraternità avremo noi qui, gli uni per gli altri?
Attenzione all’inatteso
La modestia dei riparatori. La modestia potrebbe essere la nuova e benevolente divisa per il nostro paese come per le comunità, sia civili sia religiose. Il Covid-19 avrà sottolineato come noi transitiamo da incertezza a incertezza. «Poni attenzione all’inatteso» ha scritto Edgar Morin qualche giorno fa su Le Monde in occasione del «festival dell’incertezza»:[5] l’origine del virus, le mutazioni che subisce o potrà subire durante la sua propagazione, quando la pandemia si ridurrà oppure se il virus diventerà endemico; le conseguenze psichiche, familiari e coniugali del confinamento; le ricadute politiche, economiche, nazionali e planetarie del dramma. Infine, annotava «non sappiamo se dobbiamo attenderci il peggio o il meglio, o una mescolanza dei due: andiamo verso nuove incertezze».
Tutto questo esige modestia da parte di tutti. Agli scienziati, ai politici ai protagonisti del mondo condiviso di ieri, come alla Chiesa e a ciascuno di noi. Per quanto riguarda la nostra Chiesa cattolica, il dramma e lo scandalo degli abusi e delle aggressioni sessuali ci ha già condotti, con dolore e difficoltà, ma in verità – lo spero – alla necessaria modestia che consiste anzitutto a imparare dall’altro, a cominciare da quelle e quelli che sono stati feriti dai crimini. Mettersi alla scuola dell’“inverso” del mondo. Oggi siamo ulteriormente invitati con forza a imparare dai “primi colpiti” e da coloro che sono “in prima linea”.
Rinunciare alle certezze, alle idee indiscusse, alle pretese facili. Non cedere a scivolare troppo facilmente nell’essere esperti di paccottiglia del Covid-19, del confinamento come del de-confinamento. Cercare di chiarire con modestia, nel brancolamento comune, abbandonando ogni presunzione perché se «le cose continuano come prima, ecco la catastrofe».[6] Verrà il momento che come cittadini responsabili di questo paese potremo dibattere le misure prese o non prese. Ma adesso è il tempo della battaglia contro la malattia e il suo corteo di drammi per le persone come per i popoli, qui o altrove.
Noi che ci collochiamo in tradizioni di lunga durata, che abbiamo scelto di porre i nostri passi incerti in quelli dell’unico Signore della pace, dobbiamo partecipare anche al momento che deve sostenere la pace sociale indispensabile per le prove che arriveranno. L’attuale momento ha esacerbato difficoltà, sospetti, malesseri diffusi, dolori e persino rancori. Non è il momento di amplificarli. Ma piuttosto di essere modesti costruttori di legami, di coesione, di riconoscenza. «La civilizzazione è un bene invisibile perché riguarda non le cose, ma i legami simbolici che legano l’uno all’altro, in questo modo e non diversamente» sottolineava Antoine de Saint-Exupéry in una lettera terribile e vibrante.[7]
Riparatori di brecce
Quello che si attende da noi è che siamo “riparatori di brecce”. «La tua gente riedificherà le rovine antiche, ricostruirai le fondamenta di trascorse generazioni. Ti chiameranno riparatore di brecce e restauratore di strade perché siano popolate» (Is 58,12).
Riparare le brecce, rimettere in uso le strade non significa occuparsi solamente delle nostre comunità, del nostro avvenire – anche se lo si deve fare – ma creare legami che ci uniscano a tutti. Del nostro destino comune, rovinato da tanti drammi e da questa prova collettiva, vera catastrofe.
Riparatori di brecce, non significa rifare tutto come prima. Ricordiamoci del piccolo misuratore di Gerusalemme (Zc 2,5). Viene a misurare la città per la sua ricostruzione, in lunghezza e larghezza. Ma un angelo gli fa capire che «Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e animali che dovrà accogliere» (v. 8). Una città la cui gloria è il Signore.
Non saremo semplici riparatori, ma costruttori. Non con la pretesa assai fallace di fare tabula rasa della memoria. Tutto lo spessore della storia della vita religiosa, della sua audacia, della sua capacità di innovazione in favore degli abbandonati di ogni epoca, come degli assetati di giustizia, di bellezza e di verità, di Dio stesso, invita al rischio di una speranza lucida per camminare nel futuro.
I racconti biblici, la storia della Chiesa, la tradizione viva delle nostre comunità ne sono testimoni: la novità può nascere dove non la si attende. Cerchiamo insieme, quali che siano le nostre forze, il nostro numero, la nostra età, d’essere all’altezza della sfida per «parlare assolutamente agli uomini» come diceva ancora Saint-Exupéry nello stesso testo.
Vulnerati
Il dono e la comunione. Durante questo tempo e per l’avvenire la nostra inquietudine sarà necessariamente quella di proteggerci e proteggere gli altri, specialmente i più fragili. È il nostro primo e insuperabile compito fraterno. E molti fra noi hanno avvertito il dolore di non aver potuto farlo per tutti.
Una prova, che giunge al fondo più arcaico della percezione della propagazione del male attraverso il contatto, ci ha dolorosamente ricordato che, se pensavamo di essere definiti dai nostri ruoli, dalla nostra volontà, ci siamo arresi davanti a una passività essenziale, alla nostra fragilità – che deriva dal vulnus, “ferita” – cioè per la possibile alterazione del corpo, la sua esposizione alle malattie e il suo bisogno di cura e degli altri. Come fare perché questa vulnerabilità non ci paralizzi, non ci accartocci, ma ci rinvii alla nostra responsabilità per gli altri e per prendere parte alle prove comuni? Passando dal contatto che uccide alla comunione, alla cura, alla fraternità che rinnovano e fanno la vita possibile e lieta.
Le nostre vite non sono da preservare “comunque”, ma sono per essere donate e messe a disposizione. Come conciliare le necessarie misure sanitarie per non mettere nessuno in pericolo con la nostra profonda vocazione di diventare, giorno dopo giorno, l’“essere dono” e “per il dono”? Non per eroismo. Solo grazie all’arte di amare alla scuola del Figlio dell’uomo, è l’unico motivo per dare oggi ad altri il gusto di seguirlo. Un dono e una comunione che alimentano la nostra sollecitudine con tutti quelli e quelle che escono esangui – povertà, violenza, isolamento, dolore… – da questo tempo massacrante.
Riprendere l’antica affermazione del vecchio Simeone incontrando un piccolo d’uomo – «i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,30) – significa entrare nella sicurezza che la nostra esistenza in favore di uomini e donne di quest’epoca martoriata non sarà stata vana. Essere cercatori di un Dio che invita a scoprire le Galilee del momento storico, vicino a tutti gli afflitti diretti o indiretti della pandemia, perché «non è qui» dove lo si attendeva o dove abbiamo l’abitudine di incontrarlo, «perché l’amore non interrompa la sua affermazione».[8]
«Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza» (Qo 9,10). Cari tutti, continuiamo a restare vicini gli uni gli altri, a sostenerci e incoraggiarci, con tutta la nostra amicizia fraterna.
[1] P. Ricoeur, in Le scandal du mal, Esprit luglio-agosto 1988
[2] La Croix, 23 aprile 2020.
[3] Erri de Luca, Le Samedi de la terre, Tracts Gallimard, 19 marzo 2020.
[4] Cf. P. Ricoeur, Vivant jusqu’à la mort, Paris, Seuil 2007.
[5] Le Monde 18-19 aprile; «Un festival d’incertitudes» E. Morin; Tract-Gallimard 21 aprile 2020.
[6] Walter Banjamin, Baudelaire, ed. G. Agamben B. Chitussi – C.C. Härle, (traduzione dal tedesco di P. Charbonneau, La Fabrique, 2013.
[7] Lettera del 30 luglio 1944, scritta al generale X, la vigilia della sua morte al largo di Marsiglia, aprile 2020.
[8] J.-L. Chretien, De la fatigue, Paris, Minuit, 1996, p. 164.