L’ordine agostiniano, al quale apparteneva Lutero, non ha motivo di celebrare il cinquecentenario della Riforma, ma certamente di commemorarlo, riflettendo su luci e ombre della vicenda storica e spirituale del monaco tedesco. È quanto afferma il priore generale in una lettera indirizzata alle figlie e ai figli spirituali di sant’Agostino, che pubblichiamo integralmente riprendendolo da L’Osservatore romano del 25 ottobre 2017.
In un modo che può sembrare un po’ riduttivo, si è voluto fissare l’inizio della Riforma nell’esposizione pubblica che Martin Lutero fece a Wittenberg delle sue 95 tesi sulle indulgenze, il 31 ottobre 1517. A ogni modo, non c’è dubbio che Lutero originò una vera crisi religiosa che ha provocato una frattura nella cristianità occidentale e ha posto le basi non del secolarismo, bensì del processo di secolarizzazione e della nascita di una nuova Europa. Le tesi implicarono anche un cambio nel modo di comprendere sé stesso. Fu allora che cambiò il suo cognome, da Luder, passò col firmarsi Eleutherios (il libero) per un periodo e, infine, Luther (Lutero).
La sua forte personalità, ricca e suggestiva nei suoi contrasti, la nuova teologia che sviluppò, le conseguenze della rivoluzione che scatenò, fanno di lui una figura decisiva nella storia universale e del cristianesimo. Possiamo affermare che esiste un prima e un dopo Lutero.
Non possiamo dimenticare che Martin Lutero (1483-1546) era un agostiniano. Entrò nel nostro ordine nel 1505 ed era membro della congregazione di osservanza di Sassonia. Appartenne alla comunità del convento di Erfurt prima e di Wittenberg dopo. Ricevette diversi incarichi di governo: vicepriore e reggente degli studi (1512-1515), poi vicario provinciale di Turingia e Meissen (1515-1518). Esercitò questi compiti con responsabilità e saggezza, prendendo decisioni quando erano necessarie, senza ignorare le difficoltà e cercando il bene comune. Fu un rinomato professore (il titolo a lui più caro era quello di dottore in teologia) e accreditato predicatore, si mostrò disponibile per prestare i suoi servizi quando gli furono richiesti, come avvenne per quel che riguarda la questione interna (il conflitto tra gli osservanti e i conventuali) che portò al suo viaggio a Roma nel 1511-1512. Tutte le fonti evidenziano che fu un frate pio, compito e fervente. Fino al 1521 soleva firmare sempre «Martin Lutero, agostiniano» e usò l’abito fino al 1524, conservando fino alla sua morte molto del suo essere frate per quel che riguarda la pietà e lo stile.
È anche vero che Lutero non solo abbandonò l’ordine, ma esecrò la vita religiosa con tutte le sue forze, respingendo le pratiche ascetiche e di pietà, la recita del breviario e altri obblighi, modificò radicalmente la teologia sacramentaria, condannò i voti e promosse l’abbandono e la fuga di massa dei consacrati. Il danno causato all’ordine e alla vita religiosa in Germania fu enorme. Lutero fu un nostro confratello per un periodo e condivise il nostro carisma, ma lui stesso si pose fuori dall’ordine con le sue opzioni, le sue iniziative e le sue decisioni.
L’ordine di sant’Agostino, al quale apparteneva Lutero, non ha motivo di celebrare i 500 anni dell’inizio della Riforma, ma certamente di commemorarli. E lo facciamo con serenità, mettendo in evidenza gli aspetti positivi che ne hanno avuto origine: la rivalutazione del singolo, una maggiore fiducia in Dio, la centralità della Scrittura, l’avvicinamento della liturgia al popolo, lo sviluppo del senso comunitario, la sana laicità, la necessità di una riforma intesa come ritorno all’essenziale. Cosa potrebbe imparare la Chiesa cattolica dalla tradizione luterana? Papa Francesco risponde così: «Due parole mi vengono in mente: la Riforma e la Scrittura». Il gesto di rinnovamento per una Chiesa che è semper reformanda e la scelta fatta di mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo.
Dobbiamo anche imparare a evitare che ciò che dovrebbe essere un processo di riforma e rivitalizzazione di tutta la Chiesa degeneri in uno “stato” di separazione e rottura, e che l’avvicinamento alla sacra Scrittura si risolva in soggettivismo. Per questo, secondo le parole del teologo luterano Wolfhart Pannenberg, «la divisione della Chiesa nel XVI secolo non può essere intesa come il successo della Riforma, ma solo come l’espressione del suo temporaneo fallimento; la Riforma mirava infatti al rinnovamento di tutta la Chiesa, in riferimento alla sua origine biblica». Inoltre, possiamo dire che lo scisma della Chiesa è un’espressione di fallimento per tutti i cristiani.
Oggi, nel ricordare la figura di Martin Lutero ci soffermiamo sull’uomo di profonde intuizioni religiose, sull’araldo e predicatore della parola divina, sulla sua ingegnosità e creatività, sulla sua straordinaria capacità di lavoro, sul modo in cui ha utilizzato la stampa e i progressi del tempo al servizio della comunicazione, sulla sua profonda pietà. «Siamo tutti mendicanti, hoc est verum», scrisse il 16 febbraio 1546, due giorni prima di morire. Fu un cristiano sincero e un uomo di preghiera, un buon marito e padre di famiglia, un amico semplice e ospitale, una guida diligente delle persone che cercavano il suo consiglio. Di temperamento affettuoso ed espansivo, nonostante le preoccupazioni e le malattie che lo colpirono, fu un modello di virtù domestiche. Bisogna ricordare, inoltre, le sue lotte interiori contro le angosce e le tentazioni, la sua forma diretta di espressione, l’apertura dell’anima e il modo fiducioso di condividere la sua intimità con coloro che gli erano vicini, la sua sensibilità spirituale.
Ciò nonostante, non possiamo evitare di parlare di un altro aspetto poco lusinghiero: quello che fa riferimento alla sua intolleranza. Ostinato e inflessibile, passionale e veemente, Lutero utilizzava espressioni mordaci contro chi gli si opponeva, arrivando a essere ingiurioso e grossolano. Spesso risultava vessatorio e offensivo, arrivando alla calunnia. L’eletto da Dio, il “profeta della fine dei tempi”, si considerava nella verità e, pertanto, rispondeva in termini aggressivi a qualsiasi disaccordo. Per lui non era possibile la ritrattazione perché non assumeva la possibilità di sbaglio o di errore. È significativa la sua fissazione verso la figura del papa, che si evolve dall’obbedienza reverenziale all’avversione e all’aborrimento, fino a sfociare in odio nei suoi ultimi anni. Sono veramente tristi ed esagerati i suoi insulti e le aggressioni alla Chiesa di Roma (“papista”, secondo la sua particolare terminologia). La lettura di quei testi ci riempie di dolore. Oggi, grazie a Dio, i tempi sono cambiati: non solo sono cordiali le relazioni tra luterani e cattolici, ma anche, sulla via dell’ecumenismo, si è arrivati a punti di incontro come la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata nel 1999, alla quale recentemente ha aderito la Comunione mondiale delle chiese riformate.
Quanto al suo pensiero, risulta impossibile esporlo qui, neppure volendolo riassumere. Dirò solamente che Lutero manifestò la sua sfiducia nella ragione e il rifiuto della filosofia nella repulsione viscerale alla scolastica, all’aristotelismo, ai sistemi teologici eccessivamente strutturati, ai giochi dell’intelletto, alle classificazioni, ai sofismi alle sottigliezza delle scuole. Lutero sosteneva che tutto questo ci allontana dall’incontro con Cristo e ostacola la vera fede che si fonda sulla Scrittura, sulla parola. Dio non è un’ipotesi filosofica, ma ci si rivela e ci parla in Cristo. Per questo è necessaria una maggiore semplicità, abbandonare gli artifici per andare alla fonte e rendere possibile l’incontro. E richiede anche di avvicinare la Parola di Dio al popolo, facilitandone il contatto e l’assimilazione personale. Da queste basi possiamo comprendere che Lutero dedicò molto tempo e attenzione alla traduzione e all’esegesi della sacra Scrittura e della predicazione. Egli mostrò un eccellente conoscenza della sua lingua nativa. La sua traduzione della Bibbia è di una importanza fondamentale, sia in senso pastorale che in senso filologico. Lutero ebbe un ruolo decisivo nella scelta lessicale e nello stile, nel quale si riflette la vivacità e la spontaneità della lingua parlata. È un innovatore della lingua, che dota di grande precisione e realismo, al punto di essere considerato determinante nell’unificazione della lingua tedesca e nel fissaggio del tedesco moderno. Riconosciuto predicatore, i suoi sermoni riscontrarono sempre un’enorme risonanza. Di stile semplice, concreto e didattico; molto pratico. Parlava con profonda convinzione, concentrato su quello che diceva, senza perdersi in gestualità o teatralità, ma utilizzando locuzioni popolari e modismi. Fu “l’ecclesiaste di Wittenberg”, il predicatore e il trasmettitore per eccellenza della Parola di Dio.
Un altro punto essenziale del suo pensiero, nella linea agostiniana, è la realtà della grazia riferita principalmente alla giustificazione. In questo mondo dove trionfa l’indifferenza, nel quale tante volte si vive come se Dio non esistesse, nel quale si riduce Dio a un concetto o a una regola, Lutero ci riporta al Dio rivelato in Cristo, che è Amore che si concretizza nell’Amore. Il centro della sua vita e la sua riflessione fu senza dubbio la questione di Dio. Tormentato fin dalla giovinezza dalla questione della salvezza, trovò tranquillità e gioia nel principio della giustificazione per la fede (cfr. Romani, 1, 17). Pertanto, la giustizia di Dio non deve essere intesa in senso attivo o vendicativo (un Dio giusto che punisce i peccatori), ma in senso passivo o giustificativo (Dio che rende giusti e che ci dona la santificazione). Non sono le opere, per buone che siano, quelle che ottengono la salvezza, ma la fiducia in Cristo, l’unico Redentore, che ci si comunica per la fede. Solus Christus, soli Deo gloria. Il Dio terribile si trasforma così nel Padre della misericordia e il Cristo giustiziere nell’unico Salvatore tramite la croce. Lutero sente l’incapacità dello sforzo umano senza la grazia ma radicalizza questa dottrina portandola all’estremo. Per lui è impossibile che l’essere umano possa collaborare attivamente alla propria salvezza, perché permane il peccato; solo che, per i meriti di Cristo, non ci viene imputato.
Sola Scriptura, sola gratia, sola fide. Le conseguenze della percezione luterana portarono alla negazione del libero arbitrio, all’innovazione dogmatica dei sacramenti, al rifiuto della messa come sacrificio, alla negazione del sacerdozio ministeriale, alla demolizione del magistero e della gerarchia ecclesiastica, alla demonizzazione del papato. Ciò nonostante, Lutero si mostra sorprendentemente servile nei confronti dei principi protestanti e si manifesta come un appassionato difensore del legittimo ordine sociale e politico, anche a caro prezzo. La sua posizione nella Guerra dei contadini (1524-1525) ci offre un buon esempio di questo e costituisce una delle caratteristiche più discusse del riformatore. Così come lo sono anche altri due aspetti, presenti in Lutero, che hanno gettato un’ombra nera sulla storia degli ultimi secoli: il nazionalismo e l’antisemitismo.
La figura di Lutero non è di facile interpretazione, ma è senza dubbio affascinante. È piena di contrasti che rendono difficile l’obiettività e l’equanimità, ma offre tratti enormemente innovativi ed è, senza dubbio, molto attuale. Nonostante i cinque secoli passati, continua a suscitare reazioni estreme: l’adesione o il rifiuto viscerale. E nel nostro ambito agostiniano, purtroppo, continua a rimanere ancora sconosciuto. Nell’ordine abbiamo bisogno di specialisti in Lutero, tanto nel campo storico come in quello teologico. Spero che questa commemorazione della Riforma luterana sia un richiamo e un impulso agli studi in questa direzione. Sono grato per l’interesse manifestato e le iniziative intraprese nelle diverse circoscrizioni dell’ordine, soprattutto in campo accademico, con l’organizzazione di ottimi congressi, giornate di studio e pubblicazioni. Il consiglio generale ha voluto coinvolgersi in questo senso incoraggiando l’organizzazione del Convegno intitolato: «Lutero e la Riforma: sant’Agostino e l’ordine agostiniano», che si terrà a Roma, dal 9 all’11 di novembre. Spero che sia un buon punto di partenza.
Desidero concludere con l’acuta riflessione di papa Benedetto XVI, fatta all’Augustinerkloster di Erfurt, durante il viaggio in Germania: «Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio. “Come posso avere un Dio misericordioso?” Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, oggi si preoccupa ancora di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? E le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero».
Alejandro Moral Antón,
priore generale dell’ordine degli Agostiniani.