Abbiamo incontrato a Roma il nuovo superiore generale dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani) padre Carlos Luis Suárez Codorniu, eletto da pochi giorni dal XXIV Capitolo generale (chiuso il 27 luglio). Padre Carlos, biblista di formazione, ha maturato una lunga esperienza di lavoro con i giovani e in questi ultimi anni con i giovani delle favelas di Caracas in particolare nel quartiere “El Cementerio” dove questi ragazzi, spesso adolescenti, si organizzano in bande armate.
– Venerdì scorso il Capitolo generale dei dehoniani ha scelto lei come superiore generale. Come immagina questo ruolo e questa nuova responsabilità?
Lo vedo come un dono di Dio e una grande dimostrazione di fiducia da parte dei miei confratelli. Ma anche come una sfida per me, nel cammino della mia vita in compagnia del Signore. E poi anche come dehoniano per cercare di vivere questo tratto di cammino nella fede, nella disponibilità, nel ripensare e rinnovare tutto quello che è stato fino adesso il mio modo di vivere la consacrazione. Infine, lo vedo proprio come un servizio al Signore, ai confratelli e alle tante persone che ci stanno accanto e che fanno parte del nostro quotidiano.
– Lei ha esperienza di lavoro con i poveri: cosa possono insegnare i poveri a noi, ricca società del ricco Occidente?
Personalmente ho imparato tanto da loro. Penso a quelli che vivono la giornata come una grande sorpresa, con un atteggiamento di grande fiducia, l’essere fiducioso anche quando non si sa come andrà a finire la giornata, saper quindi vivere il momento rendendolo il più possibile umano. Questo è un grande insegnamento perché ci permette di essere attenti a chi abbiamo accanto, a sentire il giorno come un tempo donato da Dio, a ricalibrare i nostri progetti a lungo termine. A fare i conti con ciò di cui concretamente disponiamo e con il tesoro che rappresenta l’altro per me. E poi un senso grande di solidarietà: quel poco viene condiviso.
Ma c’è anche quella povertà che non conosce il dono della pace, il dono della vita. Penso soprattutto a quelli che sono stati i miei numerosi compagni in questi ultimi anni, questi ragazzi che fanno parte delle bande violente, gruppi di giovani armati, poveri di una povertà che è quella di non credere nel dono del perdono, nella trasformazione della propria vita, la povertà di non vedere un futuro al di là della vendetta. Anche questa è una sfida per vivere l’altra possibilità che ci viene dal Vangelo, di colui che ha vissuto sotto la violenza e l’oppressione e che è riuscito ad aprire una strada nel buio. La strada che nasce dalla “cordialità”, questa cultura cordiale così cara a noi dehoniani. La cultura che viene dal cuore, dal cuore aperto.
– Il mondo di oggi. La maggior parte delle voci, in qualsiasi settore – economico, sociale, politico, religioso – ne parlano in chiave disfattista e negativa, come se il nostro fosse il “peggiore dei mondi possibili”. Qual è il suo pensiero al riguardo?
Mi viene subito alla memoria papa Giovanni XXIII, come quell’uomo e maestro della Chiesa che è riuscito a vedere luce laddove tanti vedevano soltanto oscurità e buio. E penso che questa è la vera saggezza e sapienza: quando siamo capaci di senso storico, di leggere in profondità questa nostra storia, questo nostro mondo e queste nostre società. Che è sempre storia di Dio, di un Dio che non ci abbandona, che non è distratto, ma un Dio che ha tanta pazienza. Questa storia e questo mondo sono suoi. Imparare a guardare la nostra storia a partire da qui per non essere sconfitti da una realtà che sempre picchia duro e che sembra impossibile da cambiare.
– Lei ha esperienza di lavoro con i giovani. Come pensa si possa accompagnare oggi il desiderio di buono e di bello che abita nel cuore dei giovani? Quali forme e parole adottare senza scadere nella imitazione giovanilistica delle loro modalità comunicative?
La mia esperienza mi dice che in primo luogo è importante la prossimità, farsi vicino, non per giudicare o condannare, ma per ascoltare, per accompagnare. Detto in altre parole “perdere tempo con loro”, conoscere il loro mondo e vedere come subito escono anche le paure, le tante insicurezze che abitano dentro di loro. Nel lavoro con questi giovani armati, abbiamo cercato di capire perché avevano un’arma in mano e le risposte sono sempre state molto chiare: «perché ho paura» dicevano. E allora bisogna aiutare a vincere la paura perché dove c’è paura c’è odio. Lo si può fare solo in una prossimità che genera amicizia e che fa sentire l’altro un fratello amato.
– Il futuro della Chiesa e della vita consacrata: cosa cambiare?
Questa è la domanda che anch’io mi faccio ogni giorno.