In attesa della riunione di tutti i presidenti delle conferenze episcopali sul tema degli abusi (Roma 21-24 febbraio) è in movimento il magma sulle violenze contro le suore da parte di preti e di vescovi (cf. La Croix, 17 e 18 gennaio). Particolarmente in Africa, ma non solo. L’eruzione è prevedibile quando il contesto civile o mediale la favoriranno.
Il 23 novembre è uscito un comunicato dell’Unione internazionale delle superiori generali (UISG): «Chiediamo che ogni donna religiosa che sia stata vittima di abusi denunci quanto accaduto alla superiora della propria congregazione e alle autorità ecclesiali e civili competenti». Il comunicato, condiviso nella sostanza, non è stato da tutti apprezzato per la tempistica e per non aver scelto canali più interni. Pochi istituti l’hanno rilanciato.
Oltre il silenzio
Il sordo borbottio è in atto da anni. «Teologi morali e madri spirituali conoscono purtroppo questa realtà che oggi esplode. Sarebbe grave mettere l’accento unicamente su quanto avviene in Africa, Cile, India, Filippine ecc. Sono testimone di donne più anziane di me che sono state abusate da preti nella loro giovinezza anche qui, nella nostra vecchia Europa. Donne giovani lo sono state più recentemente negli anni ’80 nel pieno sviluppo delle nuove comunità legate a movimenti carismatici o a correnti più tradizionali». Le parole di sr. Geneviève Medevielle, docente onoraria di teologia morale all’Institut catholique di Parigi inquadrano e legano le informazioni già note.
Nel 2016 esce in Italia il volume di Anna Deodato, Vorrei risorgere dalle mie ferite (EDB) in cui si racconta il cammino di riscatto di alcune suore vittime di abusi. A luglio del 2018, dentro un più ampia inchiesta dell’Associated Press si denuncia una violenza a Bologna. In Francia viene pubblicata nel 2017 la testimonianza di un’ex religiosa, Marie-Laure Janssens (Le silence de la Vierge) e l’anno seguente quello di Claire Maximova, ex carmelitana (La tyrannie du silence). Nel luglio 2018 sei religiose cilene denunciano abusi da parte di un prete visitatore. Nello stesso anno, in India una suora missionaria di Gesù denuncia il suo vescovo (mons. Franco Mulakkal). Un altro vescovo indiano, Prasad Gallela, viene dimesso da Roma per gravi comportamenti economici e morali. Il 30 luglio 2018 la conferenza che rappresenta la gran parte delle suore americane chiede di segnalare gli abusi subiti. L’elenco potrebbe continuare.
Inquietudini africane
Rimane un’attenzione particolare all’Africa dove si moltiplicano le piccole fondazioni diocesane. A metà degli anni ’90 sr. Maura O’Donohue, responsabile per la Caritas in ordine alla pandemia Aids, dopo un sondaggio con religiose in 23 paesi, presenta alle istanze romane uno studio di denuncia che non ha seguito. Quattro anni dopo, sr. Marie McDonald, porta a Roma un rapporto in cui sottolinea non solo le violenze inferte alle suore dai «predatori», ma anche quelle successive degli istituti che le abbandonano.
I testi vengono pubblicati dal National Catholic Reporter nel marzo 2001. Da Roma parte una lettera ai vescovi africani, ma senza alcun risultato visibile. Le violenze possono essere immediate e gratuite, ma normalmente nascono all’interno di relazioni di potere e di autorevolezza spirituale e culturale. Una coltre quasi insormontabile di silenzio sia degli autori che delle vittime le ha tenute finora nascoste. Pare che i paesi più coinvolti siano il Congo e il Kenia.
Nel 2002 viene pubblicato un libro di un prete americano, Donald Cozzens, Il sacro silenzio: negazione e crisi nella Chiesa, in cui si riprendono alcune denunce.
Più recentemente, sr. Mary Lembo, prepara una tesi di dottorato all’istituto di psicologia della Gregoriana affrontando 12 casi di aggressione sessuale e sottolinea il ruolo particolare del prete: «È una figura rispettata e temuta. Le vittime tendono a colpevolizzarsi. Nei casi esaminati è spesso la religiosa che è messa in questione. È stata lei ad attirare sguardi e attenzioni: e spesso è direttamente condannata».
Contro l’Occidente
La Congregazione per la vita consacrata, grazie all’impulso degli attuali dirigenti, è da tempo alla ricerca di una via d’uscita su una materia che coinvolge non solo i religiosi e le religiose, ma anche la Congregazione del clero e quella dei vescovi. È possibile che all’indomani della riunione prevista a fine febbraio qualche decisione venga presa.
Non si tratta solo di complessi problemi di maturità psicologica del clero e di relazione fra le diverse responsabilità degli organismi vaticani. Vi sono elementi su cui incidere, sia nell’ambito delle strutture locali, sia in quelle, assai meno condizionabili, delle culture.
La moltiplicazione, negli ultimi decenni, di piccole congregazioni femminili in capo al vescovo fa sì che non vi siano controlli interni adeguati e, alla sua morte, le religiose siano abbandonate a loro stesse.
Gli istituti internazionali che hanno maggiori competenze e autonomie finanziarie hanno deciso di non chiedere più alle novizie di ottenere una lettera di presentazione del parroco, ma di chiederla attraverso la religiosa che ha contattato l’interessata. Così si richiede oggi al vescovo che vuole fondare una congregazione un parere obbligatorio (ma non purtroppo vincolante) del Dicastero romano.
La spinta verso organismi rappresentativi a livello nazionale dovrebbe meglio garantire gli istituti più fragili e l’insistenza sulle formatrici e la loro qualificazione è diventata generale.
La parte più difficile è modificare le culture e il rapporto fra maschio e femmina in esse. Al sinodo del 2009 (sinodo speciale per l’Africa) era stato suggerito un confronto anche sul celibato dei preti, ma molti vescovi africani si sono duramente opposti. Si sentivano offesi perché gli africani erano considerati meno capaci di ottemperare al celibato degli altri.
Una responsabile internazionale delle suore mi raccontava del suo stupore davanti alla piccata reazione di suore di colore rispetto alle denuncie sugli abusi. «Voi li chiamate abusi, ma non capite la relazione fra donne e maschi della nostra tradizione culturale».
Diverso anche l’esercizio dell’autorità. Il prete è spesso considerato come il capo villaggio, con tutti i comportamenti che questo riveste. Non siamo distanti dalla denuncia contro l’Occidente di imporre i suoi riferimenti, con una sorta di nuova colonizzazione interna al cristianesimo. Come se, dopo la democrazia in sede politica e il mercato in economia, si volesse decretare sulla cultura morale. Un passaggio delicato che, fra le agenzie mondiali, solo la Chiesa cattolica è in grado oggi di affrontare, ma il cui esito non sarà né facile né immediato.