Nella prima parte della sua conferenza ai religiosi dell’Emilia-Romagna (cf. Settimananews…), padre Bruno Secondin aveva illustrato il contesto in cui è chiamata a vivere oggi la vita consacrata, a partire dall’ascolto assiduo e orante della parola di Dio. Nella seconda parte, qui pubblicata, egli individua e indica gli spazi in cui la vita religiosa è chiamata a investire se stessa. Nuovi tempi reclamano nuove diaconie.
Una lunga scia di luce
Da quanto tempo è che si parla di nuovi poveri, di nuove emergenze e, quindi, di nuove forme di presenza e di diaconia? Da molto tempo, decenni senza dubbio. Eppure non si smetterà mai di parlare di questo tema. Non solo perché è sempre vero quanto Gesù dice: «i poveri li avete sempre con voi» (Gv 12,8). Ma anche e soprattutto perché la società cambia, le circostanze impreviste non mancheranno e le improvvise urgenze si moltiplicano oggi, più di ieri.
I cambi epocali a cui assistiamo ci offrono occasione di gustare tante novità e di conoscere mille nuove possibilità di vita e di comunicazione, di lavoro e di garanzia, di festa e di cure, e mille altre cose. Ma si moltiplicano pure i risvolti difficili, gli effetti negativi e i perversi prodotti proprio dalle stesse nuove conquiste umane.
Infatti, pensiamo alla nuova economia globalizzata che sposta capitali da un continente all’altro, che all’improvviso arricchisce nazioni fino a ieri misere, e impoverisce regioni prima ricche di industrie. Questo apporta benessere e opulenza dove prima c’erano steppe e nomadismo, ma crea i nuovi diseredati, le vittime della delocalisation selvaggia, che spianta fabbriche e tradizioni industriali consolidate, per guadagnare molto più altrove con manodopera di infimo prezzo, per inquinare altrove con più libertà, e anzi con onori e privilegi, come se si trattasse di benefattori.
La nuova capacità di informare sugli standard di vita evoluta e mostrare i vantaggi del benessere, fino al consumismo sprecone e spensierato – le nuove comunicazioni fanno vedere in Occidente paradisi incredibili – avvilisce i milioni di poveri che devono affrontare la desertificazione progrediente, o i regimi violentatori e ingiusti, o le repressioni dittatoriali o fondamentaliste. E sono milioni allora gli emigranti (250 milioni dicono) che fuggono verso i “paradisi” telediffusi, che attraversano deserti aridi e oceani in cerca di fortuna. Sono milioni quelli che fuggono dall’oppressione e dalla fame; migliaia anche le vittime per mare e per terra di traversate impossibili; milioni gli illusi di un benessere che poi li tradisce e li abbandona, li emargina e li disprezza. E sono qui tra noi, smarriti e senza radici né futuro.
I nuovi arrivati, abbacinati dal miraggio di una vita facile e di un guadagno veloce, dentro le grandi nazioni progredite, si trovano spesso con la più amara delusione: schiavizzati dai mercanti del lavoro nero, venduti e comprati dai sensali del vizio e del mercato sessuale. E sfruttati dai profittatori che, sotto parvenze di solidarietà, li umiliano fino alla fame, cacciati dai razzisti che non hanno scrupoli a umiliarli, schedarli e irriderli.
E nelle risorse originali della nuova bioetica e delle biodiversità quante nuove possibilità non ci sono, per supplire alle carenze e ai disastri del supersviluppo che tutto inquina e mettere a rischio avvelenamento? Ma, nello stesso tempo, sono le popolazioni più deboli che vengono usate come cavie o che vengono derubate delle loro riserve di biodiversità, a vantaggio delle solite multinazionali senza pietà e senza scrupoli, che accumulano ricchezza ingiusta, strozzando con stile di mafia perfino l’autonomia degli Stati.
E si potrebbe continuare con i disastri che combinano le guerre a bassa tensione di cui poco si parla, eppure fanno morti e devastazioni e umiliazioni che lasceranno il segno per decenni. Le armi con cui si combattono i popoli poveri sono prodotte dalle nostre industrie, che così danno da mangiare a tante famiglie qua, ma generano morte altrove.
Si potrebbe ancora aggiungere il dissesto che hanno provocato le grandi crisi delle banche americane innestando a dòmino un dissesto mondiale di cui ancora non si vede la fine, ma di cui si toccano sotto casa gli effetti destabilizzanti come la disoccupazione dei giovani, l’insicurezza di tutti nei riguardi del futuro.
Si potrebbe ancora dire qualche cosa della corruzione sociale e politica che ha effetti deflagratori sulla coscienza collettiva: dilapidando il patrimonio di valori e rendendo plausibile ogni sotterfugio e ogni immoralità. Eppure, agli occhi di molti questo degrado è visto come “arte di vivere” oggi. E, quindi, se non c’è più in vigore un principio di moralità che impegna tutti, tutto diviene possibile e permesso, visto che ormai “tutti fanno così”. L’ipoteca sulla moralità pubblica messa in atto da forme di degrado morale e familiare conclamate e spendaccione darà frutti perversi alla prossima generazione.
7. Diaconie da reinventare
Siamo eredi e custodi di mille forme di risposte ai mali del passato: diaconie benemerite, gloriose storie di iniziative e di istituzioni benefiche, abitudini alla solidarietà e all’aiuto reciproco, spirito di iniziativa che alimenta spontaneamente la generosità delle parrocchie, dei gruppi vari, e perfino premi alla creatività originale dei samaritani di oggi.
La vita religiosa in questo ambito ha senza dubbio dei grandi meriti: non solo per la profezia ormai riconosciuta e “canonizzata” delle fondatrici e dei fondatori. Ma anche per la fedeltà creativa e l’inventiva sempre accesa dai loro eredi. E sono giunte fino a noi mille forme di questa diaconia che ha fatto feconda la parola del Vangelo e hanno riscattato dalle tenebre della sofferenza e dell’emarginazione milioni di “ultimi”.
Ma proprio questa preziosa identità e questa memoria deve alimentare oggi una nuova progettualità, nuova passione per Dio e per l’umanità, nuova profezia di solidarietà e di liberazione. Altrimenti le mille forme di diaconia ereditate rischiano di diventare delle risposte sfocate, perché date a domande e urgenze che sono cambiate, che esistevano altrove e in passato. Mentre oggi premono altre domande, altre emergenze e altre sfide: a cui bisogna dare risposte concrete e acculturate, generose e audaci. Non solo vecchie competenze e obsolete professionalità.
La schiavitù che ha imperato fino a due secoli fa in tutto il mondo, e che riguardava soprattutto certe etnie, considerate inferiori, oggi è una condizione trasversale, non più limitata a certi strati etnici, ma coinvolge tutti. La banana che mangiamo, il tappeto che calpestiamo, il pallone per giocare, il telefonino per comunicare, le scarpe che usiamo, e via dicendo spesso portano traccia di deboli sfruttati, di salari negati, di dignità calpestata: insomma di sfruttamenti e sfruttatori senza scrupoli. Arrivare fino a queste radici – per quanto lontane e occultate – fa parte della sfida a cui i consacrati devono sentirsi chiamati, per una diaconia senza equivoci. Coscientizzatori che inquietano e “profanano” la facciata del perbenismo, buoni samaritani che si caricano di tutti i mali, ma anche “voce che grida” contro tutti gli “Erode” senza coscienza e violenti.
Raccontare Dio con l’amore
Si leggeva su un parapetto di un ponte di Roma, lungo il Tevere, questo graffito: «Il futuro non è più quello di una volta». Frase perfetta nella sua semplicità. Ecco allora la domanda opportuna: “Quale è il futuro del nostro passato, perché la memoria non basta più a nessuno?”.
Tocchiamo alcune diaconie (o campi della missione) che sono state diaconie gloriose e storicamente consolidate. Ma quali devono essere le nuove diaconie, adeguate alle sfide e urgenze attuali, nei metodi, nel linguaggio, nelle forme?
1. La gioventù: Se nel XIX secolo molte famiglie religiose sono nate per venire in aiuto ai giovani e alle giovani “a rischio” (pericolanti si diceva) in un mondo contadino e pre-industriale, mondo di fame e di ignoranza, oggi le giovani “a rischio” sono quelle schiavizzate con brutalità dai mercanti del sesso. Ma sono anche quelle dominate dal fascino dell’effimero, dalla libertà precoce non solo sessuale ma anche educativa, dalle droghe e dall’alcol, dai miti della bellezza e del successo facile. E si moltiplicano ragazzi e ragazze svuotati di senso morale e di valori da mille occasioni di spettacoli e incontri, dalla mancanza di modelli positivi nella vita sociale. Lo constatiamo tutti i giorni, spesso con orrore.
Bisogna trovare nuove forme di diaconia prima che la generazione ventura prenda in mano la nostra storia e la loro con un vuoto abissale di valori e di progetti seri. Bisogna concentrare le nostre risorse nel capire questa gioventù che si sta di nuovo bruciando, e dare loro la possibilità di non sprofondare in abissi di degrado e di vuoto. Non bastano le tradizionali forme di educazione e di vicinanza: bisogna entrare per esempio nel mondo digitale, non solo per “esserci” e usarlo con competenza, ma soprattutto per viverlo “bene” e aiutare a vivere bene le relazioni orizzontali al tempo della rete. Non basta una volontà di presenza, ma ci vuole una connaturalità con il suo linguaggio, il suo nuovo senso di “relazione”, come ambiente di vita e non solo come aggeggi sofisticati.
2. La scuola: nei secoli passati la scuola era privilegio di pochi e sono quindi nate istituzioni scolastiche in gran quantità per porvi rimedio e dare a tutti una chance educativa, mentre lo Stato non sapeva che fare. Con la conseguenza oggi che abbiamo ereditato un gran numero di scuole cattoliche, gloriose istituzioni, ma anche mastodontiche realtà difficili da gestire. E così spesso tali istituzioni non riescono a sopravvivere, eppure resistiamo cocciutamente, pochi hanno il coraggio di chiuderle o di gestirle assieme ad altri. Sono la gloria dell’istituto, ma anche una palla pesante che si trascina fino che si può, senza futuro certo. Bisogna pensare in modo grezzo e creativo questa diaconia. Non bastano adattamenti generosi, ci vuole fantasia e creatività fuori schema.
3. Le varie diaconie: la stessa cosa vale per l’assistenza agli anziani con le case a loro dedicate e per la sanità nei luoghi meno favoriti. E vale anche lo stesso discorso per le scuole materne e per gli orfanotrofi, per gli internati (o collegi) e per le mense sociali, e via dicendo per mille altre cose. Ma i settori in cui tali attività e diaconie si sono svolte e si svolgono non sono meno cariche di urgenze ed esigenze: o sono esplose con nuove emergenze impreviste, quindi chiamano a nuove uscite coraggiose e nuova esplorazione di mediazioni e competenze, stili e modelli. Ci sono tanti nuovi germogli, bisogna irrobustirli, metterli in rete, fare sistema soprattutto, uscire dalla nicchia.
4. Nuove emergenze: oggi altre sono le carenze di cui soffre la società e per le quali lo stato non riesce a porre rimedio: sono gli immigrati senza permessi e quindi che vivono in semi-clandestinità, loro e anche i loro figli; i bambini che fanno i mendicanti, forzati dai genitori o dai loro aguzzini.
Sono i lavoratori che, lungo la strada, ogni mattina aspettano “il caporale” che passi col furgoncino e poi lavorano il giorno intero in condizioni da schiavi e con una paga da fame.
Sono i disoccupati che, per colpa dei loro datori di lavoro che non hanno saputo gestire l’azienda con onestà e intraprendenza, ora si trovano sul lastrico, con una famiglia da mantenere o un mutuo da pagare.
Sono gli impoveriti della società opulenta che sono soli e tristi e diventano barboni, vere vite di scarto.
Sono i giovani che si danno allo sballo della notte, specie il sabato, e spesso si schiantano contro qualche muro rientrando a casa dopo le sbornie di alcol, exstasis e balli rumorosi, e lasciano le famiglie nel pianto per sempre.
Come raccontare l’amore di Dio in queste situazioni difficili? Il volontariato ha già trovato forme di presenza e di servizio, di tipo provvisorio, volante, dinamico, senza gerarchie. Un diffuso donarsi in gratuità e solidarietà che inventa mille iniziative per attivare i canali della fraternità servizievole. Sono avanguardie che hanno preso il nostro posto, ma non contro di noi, anzi, a nostro vantaggio, se sappiamo metterci alla loro scuola, se usciamo da vecchi stili ormai sterili (cf. VC 54-56).
E ancora grida al cospetto di Dio la situazione di degrado in cui si trovano i clandestini immigrati: sradicati dalle loro radici, scorticati da viaggi avventurosi, ammucchiati in alloggi indecenti, violentati in mille modi da chi li ha trasportati, e ora in balìa delle più strane forme di controllo e di pregiudizio. La loro sorte (se va bene, quando va bene) è il permesso di soggiorno senza alcuna garanzia di un lavoro, di una casa, di un’integrazione facile. E, quando va male, il rimpatrio forzato come delinquenti, il ritorno alla miseria, per ripartire di nuovo e attraversare deserti aridi e mari che inghiottono come pescecani, oppure lunghi viaggi nascosti nei doppi fondi dei camions, nelle stive delle navi mercantili. Migliaia, centinaia di migliaia di questi fantasmi, di questi senza identità e né dignità, si aggirano non solo per l’Europa, ma ormai anche in America, pensiamo ai latinos che tentano di arrivare negli USA, pensiamo ai Rohingya nel sud-est d’Asia, ai profughi nel Medio Oriente, ai milioni di rifugiati per le guerre endemiche in Africa.
La nostra coscienza di religiosi non può dormire tranquilla.
Nuova diaconia planetaria
Non basta più dare un pane, un vestito, una mensa: ci vuole un’azione politica di grande efficacia, una sollevazione delle coscienze, una sfida alla paura e al pregiudizio: per cambiare radicalmente la società e la sua mentalità. Oggi più che le opere concrete – che sempre ci vogliono, certo! – è urgente una mobilitazione collettiva, un risveglio delle coscienze, un sollevamento della ragione, per cambiare approccio a tutti questi problemi. In passato erano le opere (anzitutto a partire dal piccolo, dal locale) a mostrare la presa di coscienza, a creare un movimento “rivoluzionario” in crescendo. E noi religiosi abbiamo fatto una vera “rivoluzione”.
Oggi ci vogliono nuove forme di partecipazione, movimenti di opinione, gesti significativi che profanano le malvagie convinzioni, i perbenismi e le difese razziste. Clamorose proteste che “bucano” la cortina di omertà che tutto rende opaco: non mancano in realtà, ma sono ancora poco note, e soprattutto subito oscurate da mille “distinguo”, da sospetti di collusione politica e o accuse di mancanza di stile “religioso”. Dubbi e sospetti che si riversano con veemenza su chi tenta profezia, mentre si lascia pacificamente dormicchiare chi vive rasoterra, di pura manutenzione dell’esistente, senza alcuna scossa, consumando un’esistenza senza novità. Salvano la faccia certamente, ma perché non la espongono mai fuori dal guscio. Che vita è questa?
Ammiro, invece, e vorrei che molti ne seguissero l’esempio, certe congregazioni religiose che alzano la voce, utilizzano i nuovi mezzi di comunicazione per denunciare, organizzano manifestazioni clamorose di solidarietà, di disobbedienza civile, di solidarietà intelligente e a vaste dimensioni. Si pensi per esempio al commercio equo e solidale, alle organizzazioni no-profit, alle banche etiche, alle campagne televisive, e via dicendo. Hanno risonanza vasta e a volte provocano sconcerto (scandalo perfino?) nei benpensanti e nei perbenisti, che mai si sporcano le mani…
Sono queste realtà le inventrici delle nuove diaconie di cui desideriamo vedere la nascita. Non opere murarie soltanto, non solo le mille e mille iniziative concrete di carità e presenza – cose sempre preziose! –, ma anche la mobilitazione dell’opinione pubblica, la sfida contro le lobbies assassine che sfruttano tutti, contro ogni razzismo protezionista e ogni ipocrisia legalista che consente (di nascosto) violenze e massacri psichici e culturali, invadenze politiche e pressioni tiranniche sui più deboli.
Se i religiosi non si affacciano – almeno qualche volta – su questo nuovo orizzonte, se non si preparano ad abitarlo con profezia, per una nuova forma di diaconia evangelica a largo raggio e non a cespuglio, se non prendono a cuore anche queste forme di servizio e di solidarietà, finiranno per illanguidire nelle loro mura sempre più fredde, vuote e pesanti. Saranno le case dei religiosi sempre meno luogo di verità e di carisma profetico, e più che altro idolo sacro che ingoia i suoi stessi custodi, costretti a mille sotterfugi per tirare avanti, ma senza dignità. E quando va meglio, trasformandole in “casa per ferie”!
Le nuove diaconie presto risulteranno la cartina di tornasole di una fedeltà insieme creativa e piena di fantasia, di chi davvero si guarda dal vivere a cespuglio, con una visuale stretta e meschina, e sa spaziare invece su orizzonti nuovi, vasti, carichi di sfide e di attese.
Autenticità da rimettere in gioco
Le cose autentiche lasciano il segno e sono tante di fatto, anche se vivono rasoterra e sottotraccia. Bisogna che vengano allo scoperto, bisogna accettare di fare notizia e opinione, di diventare testimoni in pubblica agorà, oltre che nel privato generoso. Anche così si realizza quel servitium caritatis che è la preziosa identità della storia della vita religiosa, e non può essere lasciata solo negli annali dei tempi passati. Deve diventare esercizio nuovo di profezia e gratuità, di diaconia e compagnia. Solo così la vita religiosa, specialmente quella apostolica, avrà la possibilità di meritarsi un futuro dentro questa storia.
L’ostracismo e l’emarginazione dei religiosi dai servizi sociali e l’accanimento di controlli e imposizioni anche capricciose sulle opere dei religiosi forse oggi sono meno attivi. Sia perché molte istituzioni sono ormai in via di declino e chiusura, sia perché in tanti si rendono conto che dentro un’apparente “mondo della Chiesa” – intesa come interessi e gelosie di autonomia – c’erano dedizione e amore, tenerezza e gratuità, calore e rispetto. Cose che oggi mancano quasi del tutto nelle istituzioni statali, con conseguente degrado di qualità e perdita secca di umanità in molti servizi, dove alla professionalità tecnica non si aggiunge più la tenerezza dolce del rispetto e della dedizione gratuita.
Un supplemento di umanità è quello che manca in molti servizi che lo Stato ormai garantisce di suo, ma stiracchiando fra professionalità e risparmio, efficienza, pretese e malaffare. Ai religiosi spetta non tanto far concorrenza allo Stato, magari gestendo meglio le risorse o dedicandosi senza risparmio, nonostante le poche forze disponibili. Quanto, piuttosto, esporsi sulla soglia, le periferie, la marea degli scarti: dove solo la generosità gratuita può arrivare, dove la mano amica vale più delle gerarchie e degli obblighi, dove la fede genera speranza senza pretesa di ritorno e di ricompensa. E di questo sono stati i religiosi grandi artefici da sempre, secondo la loro stessa storia.
Grazie alle risorse mai esaurite della forza ispirativa dei carismi, possono ritornare a vivere da protagonisti in nuove modalità ricche di prossimità e audacia e insieme di creatività.
L’invito di papa Francesco ad uscire verso le periferie – se preso sul serio – potrebbe aprire una nuova stagione di rifondazione, per tentare nuove iniziative coraggiose e audaci di servizio apostolico, di presenza in mezzo ai poveri, di compagnia nel nome del Signore e del Vangelo. Non facciamoci del male da soli con certe idolatrie, ma riconosciamo che è all’opera lo Spirito nel bloccarci le strade abituali, per aprirci strade nuove verso sconosciute “Filippi” (cf. At 16,11-15).
Ci sono ancora tanti settori, urgenze, sofferenze dove lo Stato non sa arrivare, o non ha voglia di farlo. Recuperando il fuoco carismatico delle loro origini, tanti istituti potrebbero reinventare qualcosa, «uscendo fuori porta», cioè passando dalla tristezza del fatalismo alla gioia per la «fantasia della carità». Dio ci aspetta “altrove”, chiede una spiritualità distopica, che sa cioè vedere oltre, attraverso, per una testimonianza non solo efficientistica, ma generativa ed esplorativa. La crisi va trasformata in opportunità, per una umanità migliore, per colmare il vuoto d’anima dell’Europa sazia ed egoista.
Conclusione
Siamo chiamati ad abitare gli orizzonti, ad esplorare cammini, non semplicemente a riciclarci, tanto per sopravvivere. Chi non anticipa il futuro, non troverà posto nel futuro. I religiosi sono da sempre testimoni del futuro atteso e anticipatori simbolici di quello che tutti attendiamo nella fede: un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» (prefazio per la festa di Cristo Re).
Certi esercizi di sopravvivenza non sono che un gioco di specchi: rimandano sempre la stessa figura, rimpicciolita all’infinito. Appunto come certe comunità e Istituti, che credono di fare cose nuove riciclando vecchie abitudini, solo superficialmente riverniciate. Tanto le cose buone valgono sempre…! Come dicevano quelli della parabola: «Il vino vecchio è gradevole!» (Lc 5,39).
«Ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Lo Spirito sta facendo appelli a cose nuove, anzi già le suscita, con la sua creatività e chiamando a nuove stagioni i nostri carismi, dentro il travaglio di un’Europa che si contorce per le doglie di un parto doloroso e imprevisto. Che non capiti anche a noi di constatare con il profeta Isaia: «Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26,18).
Una lucida analisi dei punti di forza e debolezza con cui dobbiamo confrontarci tutti quanti, cristiani cittadini compresi ovviamente. Resta aperto l’interrogativo: che fare a questo punto?