Nella 71ª assemblea generale dell’Unione superiore maggiori d’Italia (USMI), organismo che comprende circa 600 congregazioni femminili presenti in Italia, con diecimila comunità, le religiose sono state chiamate a confrontarsi sul tema “Cristo mia speranza è risorto e ci precede in Galilea. In cammino per tessere relazioni di pace”.
Il tema è stato scelto, perché legato alla sequenza pasquale, ma anche per il suo contesto missionario, per la necessità di tornare alle proprie “galilee”, sia in termini esperienziali sia geografici.
Religiose tessitrici di relazioni e di pace nel mondo, in questa fase di passaggio tra il Sinodo e il Giubileo, sono i due concetti di fondo che hanno fatto da filo conduttore delle giornate (Roma 4-6 aprile).
Il tessere è un’operazione di pazienza artigianale, oltre che di abilità, perché la tessitura è un’arte che si apprende anche con alcune competenze specifiche. Ci piace pensare che la tessitura contiene le emozioni di chi la realizzata, e dona una realtà nuova a chi la può accogliere. La vera tessitrice possiede il cuore necessario a trasmettere al suo lavoro la propria luce interiore.
Chi ha il coraggio di superare le proprie paure è capace di tessere il filo della vita, allora i pensieri diventano fili che attraversano la storia, tracciando sogni e speranze. Ciò che si tesse è il mondo che si è conosciuto e che ognuno si porta dentro come un tesoro. Quello che non si è mai dimenticato, e che vive dentro di noi, ricordandoci chi siamo davvero, dona la forza per continuare a tessere.
Tessere, secondo queste linee, è andare oltre il proprio orticello e non fermarsi a dire: “non ce la facciamo, siamo poche, dobbiamo chiudere perché non ci sono vocazioni”. Certo, sono preoccupazioni reali, però si deve guardare oltre, cogliere non grandi soluzioni ma quei germogli che vanno curati e coltivati con speranza.
Religiose: una presenza necessaria
Per poter vivere con speranza la missione della vita consacrata oggi – e l’annuncio pasquale –, occorre prendere sul serio il tema del cambiamento, ha affermato mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico per l’Arabia meridionale. Oggi ci troviamo in un cambiamento di paradigma del vivere e del pensare. Il nostro tempo è globalizzazione e velocità. C’è l’impressione diffusa che anche le evidenze più elementari dell’umano siano venute meno. «Siamo chiamati ad affrontare la realtà così com’è…, ci stiamo mummificando e quello che annunciamo diventa qualcosa di grigio. Chiediamo al Signore che liberi la Chiesa da coloro che la vogliono immobile» (Christus vivit 35).
Il rischio, di fronte al cambiamento, è resistere o irrigidirsi o lasciarsi portare dal cambiamento senza meta. Occorre, invece, avere il coraggio di entrare criticamente nei processi di cambiamento, non reagire a favore o contro rimanendo alla superficie.
Di fronte a queste affermazioni – ha proseguito mons. Martinelli – possiamo chiosare che, di fatto, non si vive più in una società cristiana. Bisogna che lo si accetti. Non perché si è obbligati o per il fatto che è divenuto inevitabile, ma semplicemente accettarla di buon cuore. La Chiesa non si può più aggrappare alla sua posizione culturale anteriore. Se vuole affrontare il suo avvenire con fede e confidenza, con audacia e coraggio, deve accettare il dato che il cristianesimo in occidente non è più la religione culturale. Un certo tipo di cristianità non esiste più.
Tre episodi capitali – ha fatto notare il presule – hanno destabilizzato alcune dimensioni fondamentali: crisi del radicalismo islamista (11 settembre), crisi economica (2008), crisi pandemica (2021). Si ha l’impressione che il percorso dell’umanità si interrompa… A volte diciamo che nulla sarà più come prima, poi si torna a correre, senza aver metabolizzato. Destinazione dell’umanità, che non riesce più a reperire un senso alla propria storia, al proprio futuro. Non sa più se c’è una meta.
Il cristianesimo e la Chiesa sono stati lungo i secoli un fenomeno determinante nella costruzione della vita in società. La loro posizione era molto influente. Sicuramente godeva di una posizione confortevole. Ma in nessuna parte del Nuovo Testamento ci è detto che è quella la posizione ideale del cristianesimo, né che questa situazione è più conveniente.
Il concilio ha aperto porte che erano fino a quel momento chiuse. È stato qualcosa di provvidenziale. Senza il concilio, la Chiesa si troverebbe oggi in un’impasse totale, chiusa su sé stessa e sul proprio discorso, impotente di fronte alle sfide di questo tempo. In troppi si preoccupano delle chiese che si svuotano, ma molti che lasciano la Chiesa di fatto non ci sono mai entrati. E bisogna dirsi che non è possibile che tutte le chiese siano piene.
Si fatica a lasciare questa idea di pienezza, perché, nell’immaginario collettivo, si continua a considerare il cristianesimo come una religione culturale. Certamente, il vangelo è annunciato a tutti, ma è evidente che, nella nostra realtà attuale, non tutti sono cristiani, e occorre fare i conti con differenti gradi di appartenenza alla Chiesa.
Mons. Martinelli ha poi declinato il discorso sul versante della vita religiosa. In questa ricerca di senso non va dimenticato il fatto che in ogni cambiamento d’epoca la collocazione della vita consacrata è sempre stata al cuore della dimensione carismatica della Chiesa. Costitutiva della vita e della missione del popolo di Dio.
La VC si è sempre posta in modo vitale all’interno dei passaggi epocali. Si può dire che le diverse forme di VC che storicamente si muovono nella storia della Chiesa sono plasmate in riferimento agli snodi storici compiuti dall’umanità.
Le donne consacrate sono al cuore del popolo di Dio che servono con i loro carismi (salute, migrazioni, carità ecc). Radicate nel mondo, narrano Dio grazie a una polifonia di forme. Si sa per esperienza che sono questi impegni a dare senso alla vita e a garantire una società umana. Senza questo coinvolgimento delle religiose, la società è persa. Sono comportamenti che la cultura moderna non ispira e non motiva. Forse non ci sono argomenti razionali che possono motivarli. Ma sono comportamenti che sono indispensabili in vista di una società più umana. È chiaro quello che minaccia la cultura moderna: l’individualismo e l’indifferenza. È la legge di ognuno per sé.
Ma anche questa legge ha un efficace antidoto nel Cristo risorto che diventa speranza del mondo. Gesù con la risurrezione porta nel suo corpo i segni della passione, l’umano ferito non è cancellato, ma perfettamente assunto e superato. La vita consacrata dev’essere custode del grido di speranza del Cristo risorto.
Come i Focolarini tessono la pace
La testimonianza, in forma di dialogo di Margaret Karram, presidente del Movimento dei Focolari, ha messo in luce due passaggi fondamentali in questi tempi di guerra: il patto di misericordia e il dialogo.
Il patto di misericordia è una pratica trasmessa da Chiara Lubich al movimento e consiste nella volontà di sciogliere i conflitti perdonandosi a vicenda, dimenticando i torti subiti e guardandosi con occhi nuovi: «svegliandosi al mattino con un’amnistia completa nel cuore». Questo è il tempo della misericordia e del perdono, proprio per quello che tutti stanno vivendo: guerre, tragedie, disastri naturali, la piaga degli abusi nella Chiesa.
In maniera confidenziale Karram si è rivolta alle religiose ponendo alcuni interrogativi: «Meditando sulla vita degli apostoli, mi ha colpito la fine che hanno fatto san Pietro e san Paolo: sono morti martiri, non hanno ricevuto, in vita, la palma della gloria. Chiediamoci allora: com’è la nostra vita oggi? la vita delle nostre comunità? Cerchiamo una “confort zone” e scegliamo di fare ciò che è più facile, ciò che ci richiede meno fatica o abbiamo il coraggio di rischiare, di metterci e rimetterci continuamente in gioco, per amare il prossimo? Ciascuna vive piccole o grandi sfide nel quotidiano: scontri, persecuzioni fuori o dentro le nostre comunità; dolori di vario tipo e incomprensioni con le nostre famiglie d’origine; nel lavoro che svolgiamo nelle numerose opere sociali o nei paesi in guerra o in tanti altri luoghi dove Dio chiama ciascuna. Per questo, proporzioni fatte, direi che oggi non viviamo nulla di meno».
Seconda parola chiave per tessere la pace è il “dialogo”. Dialogo dice che ci si vuole avvicinare a qualcuno, conoscerlo, arricchirsi della sua diversità. Il dialogo non è una tecnica, è uno stile di vita. Dialogare con l’altro vuol dire ascoltarlo fino in fondo.
Imparare a dialogare, ad ascoltarsi è il primo passo per costruire la pace. Perché dialogare non significa solo parlarsi, scambiarsi opinioni o semplicemente andare d’accordo. Il dialogo contiene molte dimensioni, soprattutto quella della vita: accogliere gioie, ma anche sofferenze, o punti di vista diversi dai nostri.
E qui appare, per i cristiani, in tutta la sua luminosità e drammaticità una parola che il mondo non vuole sentire pronunciare, perché ritenuta stoltezza, assurdità, non senso. Questa parola è croce.
La condizione per portare frutto è abbracciare la croce. La presidente del Movimento dei focolari ha messo in evidenza che oggi il “dare la vita” non può mancare in chi è chiamato a “servire” in posti di governo.
Ha esemplificato con quanto sta mettendo in atto. «Da un anno stiamo affrontando un processo di riorganizzazione e ridimensionamento economico, in seguito alla diminuzione delle vocazioni e dell’avanzamento dell’età dei focolarini e degli altri appartenenti al movimento. Stiamo facendo una mappatura delle nostre comunità, delle opere sociali che sosteniamo, delle cittadelle che abbiamo in diversi Paesi del mondo.
Per fare questo, si sta rivelando molto importante attuare il più ampio coinvolgimento delle persone e delle comunità nella costruzione di questi nuovi processi: ascoltare il più possibile tutti, facendoci aiutare anche da facilitatori ed esperti. Senza questi processi rischieremmo di mancare alla chiamata di Dio e al nostro proprio carisma, per servire più adeguatamente la Chiesa e l’umanità in ciò di cui hanno più bisogno oggi”.
Grazie per il prezioso servizio di informazione su questo importante vita della chiesa