Gli ebrei immaginari di Diego Fabbri

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Il regista Geppy Gleijeses, direttore del Teatro Quirino di Roma, annuncia di voler mettere in scena Processo a Gesù, di Diego Fabbri (1911-1980), un testo del 1955: un gruppo di ebrei scampati alla Shoah celebra da anni un processo a Gesù, che si conclude sempre con un verdetto di condanna.

Questa volta però gli spettatori, cristiani di varie tipologie, si ribellano e si arriva a una conclusione differente. Il debutto sarebbe dovuto avvenire a marzo, ma è stato annullato a causa del Covid-19. Il regista ora rivela il suo sogno: vorrebbe che l’opera venisse rappresentata in Vaticano per il papa, come segno di rinascita spirituale per il teatro.

Innocente o colpevole?

I giudici sono Elia, un “vecchio” sessantenne, sua moglie Rebecca, più giovane del marito, la loro figlia Sara, una ragazza di 28-30 anni, Davide, un quarantenne. Vengono estratte a sorte le parti: Caifa, Pilato, Maria, Giuseppe, Giuda, la Maddalena, Lazzaro, qualche apostolo.

La domanda di Elia è: «Gesù di Nazareth era innocente o colpevole secondo la legge giudaica? Fu o no condannato ingiustamente?». E ancora: «Quella crocifissione fu soltanto una dolorosa crudeltà umana o invece una colpa ben più grave, smisurata, che in qualche modo ci segue?».

Elia era un giovane professore dell’Università di Tubinga quando ebbe l’idea di istituire questo processo, sua figlia era una bimbetta, e da allora «abbiamo girato il mondo, davvero il mondo, con questa rappresentazione che vorrei chiamare “sacra”». Stiamo dunque parlando degli anni Trenta, e in quegli anni di persecuzione e di sterminio degli ebrei avrebbero potuto girare il mondo e fare teatro? E anche negli anni successivi alla Shoah la loro preoccupazione principale sarebbe stata quella di processare nuovamente Gesù?

Per cercare una risposta alla domanda «Perché noi, da duemila anni, siamo stati perseguitati da tutti?» il professore abbandona l’Università e inizia a girare il mondo «proponendo ogni giorno, per le strade dapprima, poi in baracche, in sale, in teatri» la stessa rappresentazione. L’intento è quello di ricostruire i fatti, come si sono svolti realmente.

«Fu in quel tempo che Gesù di Nazareth comparve tra il popolo dicendo: “Il Messia, il liberatore sono io; io sono colui che aspettate: ascoltatemi”». Ora, si cercherebbe invano nei Vangeli una tale affermazione. È infatti solo un falso Messia che può autoproclamarsi tale. Yeshua/Gesù chiede invece: «Chi dite che io sia?» e Kefà/Pietro risponde: «Tu sei il Messia» (Mc 8,29).

Amava la Legge o sovvertiva la Legge?

Più avanti il personaggio che interpreta Caifa dice: «Sovvertiva apertamente la legge mosaica». E in cosa consiste tale sovversione? «Non più dente per dente, ma il perdono delle offese». Dal che si evince quale alta considerazione avesse l’Autore per la Torah, quella Torah che Yeshua invece amava: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Torah e i Neviim.

fabbri processo gesùNon sono venuto ad abolirli ma a diffonderli nella loro pienezza. Amèn infatti vi dico che finché non passeranno i cieli e la terra, neppure una yod o un taam saranno cancellati dalla Torah, fino al compimento di tutte le cose. Perciò chi scioglierà la più piccola delle miswot (precetti) e insegnerà così agli uomini, sarà il più piccolo nel Regno dei Cieli, chi invece le farà e le insegnerà sarà chiamato grande nel Regno dei Cieli» (Mt 5,17-19).

Tra i personaggi non può mancare Giuda, il quale si presenta «con il sacchetto delle monete alla cintola e con la corda per impiccarsi buttata sulle spalle». Egli spiega così il suo tradimento: «Quando lo consegnai in mano al Sinedrio non avevo più alcun dubbio: Gesù di Nazareth non era il messia che aspettavamo; non era lui che avrebbe liberato il nostro popolo». Lo tradì sì, ma perché Gesù aveva tradito lui e tutti i suoi discepoli. Ma se Gesù avesse accettato di predicare la rivolta del popolo d’Israele egli sarebbe tornato a lottare al suo fianco.

E anche Caifa conferma: «Noi lo avremmo lasciato predicare liberamente purché nei suoi discorsi avesse precisato che il regno che ognuno doveva conquistare era quello d’Israele». Qui la realtà è capovolta: i sacerdoti erano vicini al dominio romano e niente avrebbero temuto di più di una rivolta armata contro l’Impero.

Ma se le motivazioni di Giuda erano politiche, perché i trenta denari? «Dovete pensare che avevo messo nell’impresa tutto il mio, e che m’ero del tutto rovinato. Quei trenta denari mi consentivano di cominciare un’altra attività». Ma trenta denari erano una somma molto modesta! L’Autore ha pronta la risposta: «Trenta denari di quel tempo corrispondono a oltre dodici milioni di lire di oggi, quasi quindicimila dollari».

Tra altre incongruenze sulle quali sorvoliamo, la rappresentazione si interrompe e, nella pausa che precede la sentenza, veniamo informati che Sara tradiva il marito Daniele con Davide, che Daniele era «scomparso in Germania in circostanze molto dolorose» e che «s’era persuaso che Gesù fosse davvero il Salvatore di tutti».

Entrano in scena gli spettatori

Nel secondo tempo la rappresentazione riprende. Prende la parola Elia e anche nel suo discorso aleggia l’idea di conversione: «È difficile, sapete, distaccarsi da un mondo per entrare in un altro… anche se ormai si sente che una volta o l’altra questo passaggio dovrà pur compiersi… ma si ritarda sempre il giorno in cui diremo addio a tutte queste gioie della nostra comunità».

Egli svela che la ragione per cui per tanti anni si è ostinato a ripetere quel processo è che «saremmo riusciti a trovare una soluzione al dilemma di un nostro antico e smisurato errore» e «saremmo perfino riusciti a suscitare una prova imprevista che ci avrebbe aperto una strada nuova per intendere quell’annuncio».

Ma per il momento Elia non può che confermare la condanna: «Gesù di Nazareth fu appeso alla croce per ordine del Procuratore Romano perché con le sue magie aveva sedotto e sviato il popolo d’Israele». Come se al Procuratore Romano potesse importare qualcosa delle magie seduttive di un predicatore galileo!

A questo punto però intervengono gli spettatori: un primo spettatore, che si rivelerà essere un prete cattolico, l’intellettuale, che è un Giuda, la bionda, che è una Maddalena, un provinciale, che è un figliol prodigo, una donnetta, una vedova che durante la guerra ha perduto il figlio. Insieme, rappresentano «il risveglio della coscienza cristiana».

I colpi di scena però non sono terminati: Davide a questo punto sente il bisogno di confessare che a Monaco, «ai primi segni della persecuzione contro gli ebrei», dunque nel 1933, era stato lui a denunciare Daniele e non soltanto per gelosia della moglie (evidentemente una sposa bambina) ma per un altro motivo: «Denunciavo in Daniele un ebreo che s’era già quasi fatto cristiano». L’omicidio del I secolo si ripete nel XX.

Ma anche Davide è pronto alla conversione: «Mi ha perseguitato per anni… mi ha accecato… ora ha vinto» e anche: «Perché fate ancora delle distinzioni? Non vi siete accorti che da “allora” non ci sono più ebrei e cristiani, ma soltanto un’unica famiglia di peccatori che domandano un unico perdono?». Che in realtà vuol dire: non ci sono più ebrei, ma solo cristiani.

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Una visione anacronistica

Processo a Gesù venne stroncato da Jules Isaac (1877-1963) ne L’enseignement du mépris (Fasquelle 1962). Isaac era un professore di storia, radiato dall’insegnamento, che aveva perduto nella Shoah sua moglie, sua figlia e suo genero e aveva dedicato il resto della sua vita a lottare contro il mito del popolo deicida e a favore di un nuovo rapporto tra ebrei e cristiani. Il personaggio Elia, probabilmente al di là delle intenzioni di Fabbri, ne rappresenta una sorta di caricatura farsesca.

La visione di Yeshua/Gesù e degli ebrei che appare in Processo a Gesù è del tutto avulsa da tutto quanto sia a livello di relazioni ebraico-cristiane sia della ricerca storica sulle origini cristiane si è sviluppato dal Concilio Vaticano II ad oggi. Che qualcuno voglia rimettere in scena quel testo anacronistico e superato appare incomprensibile.

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